“Ripartiamo da sinistra” o “rifondiamo la sinistra”. E’ da prima del crollo del muro che queste e altre locuzioni assediano il dibattito della nostra area politica. Cosa significa però essere di sinistra? E perché alcune formazioni politiche radicali possono certamente dirsi di ispirazione socialista, ma non di sinistra, mentre altre più vicine a programmi liberali possono definirsi tali senza particolari problemi?
Non pretendo di avere la risposta, ma provo a dare una mia modestissima interpretazione.
Premesso che la semplificazione monodimensionale destra-sinistra schiacci su una riga forme a molteplici dimensioni, possiamo facilmente convenire che con il termine sinistra si sono identificate tutte quelle formazioni politiche che sono evolute dalle dottrine marxiste e dalle loro rielaborazioni e contaminazioni geografiche, culturali e ideologiche durante il Secolo Breve. In realtà il concetto di sinistra precede di quasi mezzo secolo Marx ed Engels e si fa risalire al luogo e al tempo dove è nata tutta la moderna politica europea: la Rivoluzione Francese.
La storia della sinistra nasce proprio all’interno del Terzo Stato che si dispone in udienza plenaria alla destra o alla sinistra dello sfortunato Sovrano Luigi XVI. La contrapposizione non era ancora ideologica nel senso moderno del termine, ma si fondava essenzialmente su una differenza: chi voleva mantenere lo status quo e chi in modo più o meno radicale voleva cambiarlo.
Ed è proprio qui che si definisce il concetto di sinistra, nel solco del progressismo e del cambiamento, della continua ridiscussione delle regole e dei principi che muovono l’azione politica per interpretare e poi cavalcare i mutamenti socio-economici, che mai sono stati così rapidi come negli ultimi decenni. La sinistra è quella che uccide il padre per dirla con i vecchi sessantottini, è una necessità edipica finalizzata a superare le vecchie ricette monolitiche di chi ci ha preceduto: il metodo baconiano impone una pars destruens che preceda necessariamente la pars construens.
Il problema della sinistra europea – italiana e inglese in particolar modo – è che ha ucciso certamente il padre, ma – stando nella metafora - per resuscitare il nonno.
In questa narrazione – o storytelling – in cui un glorioso passato diviene l’unica ancora di salvezza per mancanza di coraggio e incapacità di tracciare i contorni un progetto nuovo, si finisce ad essere più che conservatori: si diviene reazionari. E per questo non deve stupire se le ricette di alcune formazioni politiche radicali a sinistra del Partito Democratico assomiglino in molti punti a quelle propinate dalla destra salviniana e della Le Pen: euroscetticismo, statalismo, protezionismo e paura del diverso (straniero è il rifugiato come straniero è il nuovo assetto economico globalista). Una proposta che ha funzionato nel passato perché non può funzionare oggi? Forse perché ci sono altre variabili e la medesima formula per risolvere il problema ci può portare alla soluzione sbagliata,
Riproporre alcuni modelli sociali ed economici che non tengano in considerazione i mutamenti che abbiamo vissuto negli ultimi venti-trent’anni non solo è miope e inefficace, ma è proprio di destra. Pensare di opporsi alla globalizzazione capitalista è di destra, perché è grazie all’attuale sistema economico che in poco più di due decenni la povertà assoluta a livello globale si è dimezzata, che la mortalità infantile si è ridotta drasticamente e che la speranza di vita e l’alfabetizzazione nei paesi più poveri sono cresciute. Questo sicuramente a discapito di una maggiore crescita nel mondo occidentale, ma è di destra pensare che l’evoluzione umana di questi ultimi anni sia sbagliata e debba essere contrastata.
Contrastare il capitalismo moderno quando si accentua la necessità di disporre di ingenti capitali per la transizione energetica e per fondare una vera Green Economy è sostanzialmente stupido, figlio di chi non vuole accettare che lo strumento certamente utile fino a trent’anni fa ha esaurito oggi la sua funzione.
Essere di sinistra dovrebbe comportare la lettura oggettiva della realtà e la ricerca di soluzioni nuove per rendere più competitivi i Paesi ricchi rispetto a quelli più poveri, che ora crescono a doppia cifra.
Essere di sinistra significa prendere atto che mentre nel ‘900 la ricchezza era contesa tra classi sociali meno abbienti e classi sociali più abbienti in sistemi ancora semichiusi, ora la ricchezza è in concorrenza tra i vari Paesi e solo essere più concorrenziali rispetto ad altri può diminuire la povertà.
La ridistribuzione della ricchezza è un principio eticamente giusto e intoccabile, ma in nome di questa non vanno mortificati i fattori produttivi della stessa. Le diseguaglianze oggi non nascono perché le classi più agiate sottraggono risorse a quelle più povere come in passato, ma perché in un mondo globalizzato hanno la possibilità di far maturare le proprie risorse in Paesi dove la crescita è molto più alta, dove la burocrazia è a volte fin troppo assente e dove la fiscalità è più conveniente. Chi invece non dispone di patrimoni rimane legato ad un reddito (quando c’è) di un paese in stasi e non sarà la ridistribuzione interna a cambiare le cose, se a fianco non poniamo una seria politica che abbia come principale obiettivo la crescita economica.
Se ci leghiamo però alla visione di cinquant’anni fa rischiamo di deprimere ancor di più il nostro sistema economico e chi ci rimetterà davvero non saranno i grandi patrimoni, ma i nostri poveri, perché là fuori ci sono due continenti con una quantità di potenziali (e attuali) consumatori che sono più di tre volte quelli del mondo occidentale.
In questo tanto devono fare i partiti, ma tanto devono fare anche i sindacati. Si deve tornare a lottare non battaglie per la riaffermazione di antiche regole da cui gli unici sconfitti sono proprio i lavoratori, ma per la contrattazione di nuovi salari e di nuovi diritti all’interno di una società che non è più quella che ha visto la nascita dello Statuto dei Lavoratori. Per dirla con Massimo D’Alema: “La mobilità, la flessibilità, sono innanzitutto un dato della realtà. È il grande problema che si pone a noi di sinistra. Dobbiamo costruire nuove e più flessibili reti di rappresentanza e di tutela. Se noi non ci mettiamo su questo terreno, rappresenteremo sempre di più soltanto un segmento del mondo del lavoro. Dobbiamo negoziare il salario e i diritti di chi sta nel lavoro nero, nel precariato, anziché stare fuori dalle fabbriche con in mano una copia del contratto nazionale del lavoro”.
E’ qui che deve inserirsi la battaglia del Partito Democratico: contro e per se stesso prima e per una società nuovo dopo, perché senza un modello per il futuro i cittadini tenderanno sempre più a rifugiarsi in ricette reazionarie. Ed è questo è nato il Partito Democratico. Rileggendo la Mozione Fassino del 2007, quella che portò alla nascita del PD, non si non soffermarsi sulle parole “Per questo abbiamo bisogno non di rinnegare il passato, ma reinventare i suoi valori, elaborando un ʺpensiero nuovoʺ, capace di leggere e di raccogliere le sfide di un secolo nuovo. Un pensiero nuovo può nascere se le diverse culture riformiste italiane – socialista, cattolico democratica, liberaldemocratica, ambientalista – vanno oltre la parzialità delle loro singole esperienze per incontrarsi e insieme, fondando il Partito Democratico, dare una rappresentanza politica unitaria al riformismo. Serve l’unità dei riformismi, perché dinanzi alle sfide del nuovo secolo, nessuna delle grandi culture e tradizioni politiche riformatrici del Novecento può pensarsi come autosufficiente.”
Essere di sinistra insomma significa guardare con obiettività al presente per costruire il futuro.
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