Muro di Berlino, 13 agosto 1986. Venticinquennale della costruzione di un mostro. Più di 155 kilometri di cemento e filo spinato. 302 torri di guardia. 3 punti di attraversamento o checkpoint che dir si voglia – Alpha, Bravo e Charlie. Poi guardie, armi automatiche, medaglie al valore, morti.
Una frontiera di guerra tra due mondi che non si vogliono capire. Da una parte l’Occidente, “libero” come non mai e al pieno della sua potenza; dall’altra il Comunismo brutto e cattivo, sempre più prossimo al collasso. Così diversi, così divisi, ma unificati in un unico obiettivo primo: l’annientamento dell’altro, del nemico. D’altronde, l’aut-aut tra i due modelli era storia vecchia, risaliva addirittura al 1917 e si era protratto per tutti gli anni seguenti. Secondo un oscuro principio il comunismo era intrinsecamente “brutto” e come tale andava combattuto, elettoralmente e militarmente.
Ma questa non era solo una preoccupazione dei grandi manovratori politici. Non erano solo Churchill o Truman a volere i sovietici confinati in un mondo a parte a collassare su se stessi. Erano interi sistemi, intere scuole di pensiero, valanghe di cittadini. E lo stesso succedeva dall’altra parte: folle oceaniche assistevano alle parate militari di Mosca, migliaia di persone guardavano alla Russia come a una promessa – per dirla alla Gaber.
Ambo le parti erano crucciate da un male che ha sempre accompagnato la storia umana, solo ora un po’ più esasperato: la volontà di potenza. Il Muro di Berlino, la Cortina di ferro, non erano avulsi confini geopolitici; erano la trasposizione pratica dei sentimenti di intere masse e di interi popoli, che su quei tracciati vedevano i baluardi della propria difesa contro la barbarie. Oggi è facile appellarsi alla libertà dei popoli, come se gli unici responsabili della tragedia fossero stati i costruttori o le sentinelle che facevano le guardie. È facile ed è comodo. Non ci si può e non ci si deve tuttavia dimenticare che quel Muro non era fatto di solo cemento. Era fatto di tutte le Koree, di tutti i Vietnam, di tutte le guerre postcoloniali combattute in nome dell’ideologia, di tutto l’odio che ciascuno, come singolo, ha iniettato nella sua vita quotidiana semplicemente perché non voleva capire il proprio simile.
Muro di Berlino, 9 novembre 2014. Venticinquennale della Caduta. Del confine non restano che pochi blocchi in piedi, tutto il resto è stato distrutto o venduto all’asta. Le cerimonie per l’anniversario sono in pompa magna: orchestra, Merkel, mostre, persino Gorbachev. Tutto il mondo punta gli occhi sulla capitale tedesca per dire che, finalmente, è libero.
Ma di quale libertà?
Per molti, della libertà di essere ipocriti. Ormai chi ha costruito il Muro, e l’ha tenuto su giorno per giorno in Italia, in America, in Germania, in Russia, se ne può facilmente lavare le mani. Tanto è passato. Allora gli basta unirsi al giubilo generale, su Facebook o in piazza, per deprecare tutta quella gentaglia che costruiva barriere e avrebbe dovuto costruire ponti – un po’ come tutti quei convinti fascisti che dopo il 25 aprile sono diventati convinti partigiani. Tanto questo mondo dimentica sempre, e pure in fretta – in nome della redenzione, ovviamente.
Per altri ha significato la libertà di vivere in un mondo che non capivano e del quale difficilmente fanno e faranno parte. Paesi che non riescono a inserirsi nel mondo capitalista, che vivono ancora di economie centralizzate e scontano l’eredità della pianificazione sovietica. Bulgaria, Romania, Moldavia, per non parlare di Ucraina o Bielorussia. Paesi abbandonati dagli Occidentali in nome di non si sa bene cosa, lasciati a se stessi a scontare colpe di altri.
Per la Russia ha significato la libertà d’isolamento più totale e lo si vede ancora di più in questi giorni, con Putin che abbandona il G20 di Sidney prima della sua conclusione. Un altro paese condannato a vivere di pochi ricchi e troppi poveri, nonché di un nazionalismo irrefrenabile – per pura e semplice scelta.
Ma la Caduta del Muro non è stata soltanto una Madonna dell’ipocrisia e della separazione.
Per molti ha significato e significa molto di più. Libertà di viaggiare, libertà di sperare, libertà di combattere. La prima per tutti. La seconda per chi ha visto aprirsi possibilità che gli venivano precluse senza che ne avesse colpa. La terza per chi ha capito che la lotta all’oppressione deve ancora fare passi da gigante nel mondo.
Perché una delle cose più tristi è che troppi sono convinti che quello di Berlino fosse l’ultimo Muro. Cipro, Belfast, California, lungo il confine greco-turco e lungo quello tra India e Bangladesh, Ceuta e Melilla, Korea, Baghdad, Sahara Occidentale, Kashmir, Palestina.
Ben undici muri. Dei quali però a nessuno, o comunque a pochi, importa qualche cosa.
Viene spontaneo chiedersi: ma le persone che stanno al di là di quei reticolati non hanno gli stessi diritti dei cittadini di Berlino est? Cosa c’è di diverso tra un cittadino messicano e uno tedesco? Perché un ungherese aveva più diritto di un palestinese ad avere frontiere aperte?
È triste come il mondo sappia usare sempre e solo due pesi e due misure. Sarà che questa libertà occidentale non è solo per tutti. Sarà che i diritti valgono a fasi alterne.
Ma è anche, e soprattutto, che di là di questi altri undici muri non c’è nessuno da annientare. Non c’è il comunismo. Anzi. Ci sono alleati militari ed economici o popoli che chiedono una vita migliore. Nessun amico è dalla parte sbagliata del muro e quindi non vale la pena interessarsi alla sua sorte.
È ipocrita dire che il 9 novembre sia la Giornata della Libertà. Si dovrebbe piuttosto chiamarla Giornata del Privilegio, o Giornata dell’Occidente Libero. Almeno finché tre quarti della popolazione mondiale non sarà considerata, al pari dei cittadini dei paesi “sviluppati”, veramente umana.
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