Rispondo all’articolo dell’amico e collega nel Forum Economia e Lavoro, nonché nella Direzione Provinciale, Marco Addivinola, apparso recentemente nella rubrica “opinioni”, ed in particolare al suo esempio, formulato a sostegno della sua posizione nei confronti dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Dato che ipotizza un caso di infortunio sul lavoro, vorrei prima spendere qualche parola in termini di sicurezza.
La normativa italiana in tema di sicurezza sul lavoro è forse una delle più complete.
Nella mia ultima attività lavorativa (circa tre anni fa) ho avuto a che fare con norme perfino ridondanti. Un dossier di decine di argomenti, dei quali oltre la metà non riguardanti la attività specifica, vuoi per tipologia di lavoro, vuoi perché adatti a dimensioni maggiori di aziende.
L’impegno burocratico per certificare e garantire il tutto comunque era notevole. Questo per dire che una semplificazione normativa, a parità di prevenzione, non sarebbe fuori luogo.
Il controllo che le norme vengano effettivamente applicate è invece abbastanza labile: di un certo rilievo nelle aziende manifatturiere; assolutamente carente in quelle edilizie, dove si verificano le maggiori responsabilità imprenditoriali e la maggior frequenza di infortuni.
Sia i pochi controlli che le responsabilità di molti imprenditori sono le cause principali dei numerosi casi di vittime sul lavoro.
Ma, come dice Marco, nelle aziende si stanno svolgendo corsi formativi per i dipendenti (tranne che per quelli che lavorano in nero ovviamente!). Probabilmente le aziende mettono a disposizione anche i DPI (dispositivi di protezione individuale: casco, guanti, occhiali, maschere, ecc.) ed hanno al loro interno la funzione obbligatoria RSPP (Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione).
Ciò che andrebbe anche incentivato però, è insistere per un cambiamento di cultura da parte dei lavoratori. Quante volte ho dovuto intervenire anche duramente per far adottare il casco protettivo o le scarpe di sicurezza! Certo, soprattutto in estate il casco dà fastidio, e le scarpe possono far sudare i piedi, ma il danno che può derivare dal loro mancato uso è ben maggiore.
Nel recente caso di asfissia da acido solforico, in quell’azienda, sembra che non fossero usate le maschere che invece ha adottato quel loro collega che h tentato di soccorrerli.
Credo che in questa operazione di acculturazione i sindacati potrebbero giocare un ruolo importante. Per convincere i lavoratori ad usare i DPI, e perché essi stessi insistano perché il datore di lavoro li fornisca.
Ma torniamo all’esempio di Marco. Tutto giusto quello che lui scrive. Il lavoratore va tutelato, e quindi il datore di lavoro deve trovargli un’altra occupazione.
Se però l’azienda è di dimensioni modeste (20 – 50 dipendenti, come la maggior parte di quelle italiane) la nuova collocazione disponibile per il lavoratore potrebbe risultare demotivante per lui stesso, e poco produttiva per l’azienda.
Se invece si sviluppasse un programma di ricollocazione serio, che lo aiuti a riqualificarsi, ed a trovare una occupazione nella sua o in altra azienda, più adatta a lui, ci guadagnerebbe lui stesso ed anche il sistema.
Conosco le obiezioni che possono sorgere: in periodi di forte disoccupazione è difficile trovare un altro posto. Questo è vero, ma è anche vero che vi è ancora difficoltà nel far incontrare il mercato dell’offerta con quello della domanda. Sono molte le aziende che non trovano lavoratori con le specializzazioni che servono.
L’esempio in argomento tocca una sola persona, e in quest’ottica possono risultare vaghe queste considerazioni. Ma se estendiamo l’analisi alla totalità del mondo del lavoro, possiamo pensare ad un cambio culturale: anziché puntare in assoluto sulla protezione del posto di lavoro, occuparsi della protezione e difesa del lavoratore. In molti casi, di questi tempi, il posto di lavoro specifico è comunque a rischio, perché l’azienda può fallire. La difesa del lavoratore con il ricollocamento può risultare di maggiore aiuto.
Occorrebbe però che i programmi di ricollocazione siano gestiti in modo tale che, l’azienda che vuole licenziare, sia incentivata a far sì che il lavoratore trovi presto un altro posto, perché nel frattempo sarebbe lei ad essere chiamata a pagare l’assegno di disoccupazione al lavoratore. Certo non come i programmi gestiti dalle regioni e realizzati finora !
La difesa contro i licenziamenti discriminatori va tutelata.
Non so come alla fine verrà approvato il “Jobs act”, e come in esso sarà trattato l’art. 18. Certo una difesa contro le decisioni più arbitrarie va mantenuta. Mi auguro che i confronti in corso tra sindacati e governo, portino ad esiti favorevoli.
Ma è una nuova cultura del lavoro che va sviluppata.
In una situazione di grande fragilità delle aziende, soprattutto piccole e medie ( cioè la maggior parte di quelle italiane) è più importante concentrarsi sulla tutela del lavoratore che non su quella del posto di lavoro, che spesso è in bilico per rischio di chiusura dell’azienda stessa.
Da ultimo non mettiamo tra parentesi il fatto che con il contratto a tutele crescenti si supera finalmente quella grande ingiustizia che è il lavoro precario. Politica profondamente sbagliata da parte degli imprenditori, con il beneplacito dei governi berlusconiani, ma che ha visto quantomeno distratto il sindacato in questi ultimi anni.
Report