L’incontro che si è tenuto venerdì 27 gennaio scorso con la giornalista Amira Hass del giornale israeliano Haaretz sul tema del Medioriente – in coincidenza peraltro con il giorno della memoria – è uno di quegli incontri dai quali si torna a casa consapevoli di essersi arricchiti, culturalmente e umanamente. E, data la sala piena dell’Urban Center, e le tantissime domande fatte dal pubblico, ritengo che questa non sia stata una sensazione solo mia.
Introducendo la serata ho voluto spiegare brevemente i motivi che hanno spinto il Circolo a organizzare una serata sul tema del Medioriente in un momento storico nel quale l’interesse della maggioranza dell’opinione pubblica è rivolto altrove: alla crisi della UE, agli scenari politici che si aprono con la presidenza Trump, alla discussione sugli effetti della globalizzazione.
Ebbene, le ragioni sono essenzialmente due, una di ordine pratico e l’altra di ordine morale; cercherò di spiegarle, senza pretesa di motivarle in maniera esaustiva.
La situazione politica attuale del Medioriente – in particolare la questione siriana e quella palestinese – sono il risultato, tra le altre cose, lungo tutto il XX secolo, di spinte nazionaliste estreme, di aspirazioni egemoniche, del perseguimento di interessi particolari a discapito di quelli generali con il risultato di avere generato, inevitabilmente, conflitti sanguinosi forieri di immani tragedie umane e crisi umanitarie.
Questo dovrebbe far riflettere sulla utilità di intraprendere oggi la via di una politica nazionalista perfettamente incarnata nello slogan di Trump “America first” e sul fatto che, per contro, il periodo di pace più lungo che l’Europa ha vissuto è coinciso con la creazione di un’istituzione – la Comunità Europea, oggi Unione europea - che, per quanto imperfetta e assolutamente da riformare, era stata concepita e si fonda su principi diametralmente opposti. O siamo stati fortunati, oppure una correlazione tra le due circostanze deve esistere.
La ragione morale invece è che non possiamo ignorare che l’Europa - e l’Occidente in generale - hanno avuto responsabilità politiche gravissime nel porre le basi e favorire le condizioni che hanno generato la drammatica storia del Medioriente nel ‘900 e, ciò che è peggio, spesso lo hanno fatto deliberatamente, con un preordinato e doloso cinismo utilitarista.
Senza pretese di completezza, voglio ricordare alcune date e avvenimenti cruciali della storia del Medioriente, come viene definito il territorio compreso tra la Mesopotamia e il Mediterraneo.
Da sempre questa zona è stata appetita e strategica per le potenze europee in quanto era la via di passaggio delle rotte commerciali verso l’Oriente: ma lo divenne molto di più dopo la realizzazione nel XIX secolo del Canale di Suez, opera che risparmiava alle flotte commerciali delle potenze coloniali dirette a Oriente il tempo e i rischi della circumnavigazione dell’Africa.
A questo si aggiunse in seguito la scoperta del petrolio nella penisola arabica, ancora più ambito dalle potenze occidentali che dovevano far fronte alle sempre crescenti necessità di energia per il loro processo di industrializzazione.
Fu così che, nel pieno svolgimento della prima guerra mondiale, esattamente nel 1916, Inghilterra e Francia - alleate con la Russia nella Triplice Intesa opposta, tra gli altri, all’Impero Ottomano – strinsero un patto segreto (e scellerato) su come spartirsi in caso di vittoria le spoglie di quei territori che facevano allora parte dell’Impero ottomano.
I diplomatici Sykes e Picot, tracciando a tavolino una immaginaria linea tra Acri e Kirkuk, decisero di assegnare al Regno Unito il controllo e lo sfruttamento commerciale delle zone comprendenti approssimativamente la Giordania, l’Iraq, Haifa e alla Francia la zona sud-est della Turchia, la parte settentrionale dell'Iraq, la Siria e Libano. Restava fuori la Palestina, da assegnare a un'amministrazione internazionale da definire.
Questa linea di spartizione – con a nord la Francia, a sud la Gran Bretagna - non teneva in nessun conto criteri di carattere storico, culturale o demografico del territorio: teneva unicamente conto degli interessi economici delle due potenze coloniali europee.
L’anno successivo, nel 1917, l’allora ministro degli esteri inglese Lord Balfour indirizzava poi una lettera al barone Rothschild - il maggiore esponente del sionismo nel Regno Unito – comunicandogli l’impegno del governo britannico – che aveva bisogno dell’appoggio economico e politico degli ebrei per il suo sforzo bellico – a sostenere gli ebrei nella futura creazione in Palestina – una volta sconfitto l’Impero ottomano - di una loro “National Home”.
Si trattava di un impegno non solo ambiguo – non si parlava infatti di stato ma atecnicamente di “dimora” - ma in contraddizione con quanto convenuto nell’accordo Sykes-Picot, e dettato, ancora una volta, da interessi del tutto estranei a quelli delle popolazioni – compresi i palestinesi - sulla cui pelle, e sopra la cui volontà, venivano presi.
Nel 1922, terminata e vinta la guerra, gli inglesi si videro assegnare dalla Società delle Nazioni il mandato per amministrare la Palestina e lo esercitarono, ancora una volta, a proprio uso e consumo, soprattutto omettendo colpevolmente di gestire un fenomeno che si sarebbe rivelato drammaticamente esplosivo alla fine della seconda guerra mondiale: l’immigrazione e la fondazione di colonie da parte di ebrei.
Quello che successe in Europa tra gli anni ‘20 e gli anni ‘40 è noto a tutti: si cominciò dalle discriminazioni e dalle leggi razziali antisemite per arrivare all’orrore dei campi di concentramento e degli stermini di massa degli ebrei.
Pochi sanno invece che nel frattempo – esattamente nel 1938 – fu scritta un’altra vergognosa pagina della storia dell’Europa e dell’Occidente: il presidente USA Roosevelt convocò una conferenza internazionale a Evian per cercare di dare una soluzione al problema delle migliaia di profughi ebrei in fuga dalla Germania e dall’Austria naziste.
Nonostante parole di circostanza, i rappresentanti degli stati – partendo dal delegato francese – affermando che i loro paesi avevano raggiunto il punto estremo di saturazione riguardo all'accoglienza di rifugiati, si rifiutarono di aprire le loro frontiere a questi uomini e donne perseguitate segnandone, inevitabilmente, il destino.
E i sopravvissuti all’Olocausto – del quale il popolo palestinese non ha avuto alcuna responsabilità - una volta finita la guerra, non ricevettero un trattamento migliore e videro come unica soluzione l’emigrazione in massa in Palestina.
L’Europa, ancora una volta, non si assunse le sue responsabilità favorendo di fatto una soluzione che avrebbe innescato un conflitto che dura dal 1948 ad oggi e del quale non si intravede la fine.
Un proverbio dice che chi rompe paga e i cocci sono suoi: invece l’Europa e l’Occidente, rispetto al Medioriente, hanno devastato e sempre preteso che i cocci rimanessero agli altri.
A ruoli invertiti, noi lo accetteremmo?
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