Un uomo è stato assassinato vicino alla sua casa, a Monza, lo scorso 29 novembre.
La notizia di un omicidio nella propria città è vissuta con sentimenti contrastanti. Le mie prime sensazioni sono state dispiacere e sorpresa, seguite da amarezza quando sono emersi i probabili motivi del reato, che sono subito sembrati riferirsi criminalità legata allo spaccio di droga.
Alcuni meccanismi psicologici, per quanto non ci piacciano, sono innegabili: la nostra capacità di provare empatia e compassione è in buona parte, parlo almeno per me, legata alla vicinanza rispetto all’evento. Quando succede a qualcuno che conosciamo, o in cui ci possiamo immedesimare, siamo emotivamente più colpiti.
Ammetto che il risvolto criminale di questo episodio triste abbia fatto pendere la bilancia delle emozioni verso l’amarezza per l’aumento della criminalità in un quartiere a cui sono stato legato, rispetto alla compassione per la vittima.
Razionalmente so che è sbagliato, ma sono meccanismi che non dominiamo con la ragione, e sarebbe ipocrita nasconderlo, persino irrispettoso credo.
Il giorno seguente all’omicidio ero a lavoro quando ho letto la notizia dell’arresto e della confessione dei due presunti assassini, due ragazzini di 14 e 15 anni, e del presunto movente legato alla loro tossicodipendenza.
Ho sperato che non fosse vero. Spero che non sia vero, che emerga qualche fatto nuovo, un coinvolgimento di adulti, come se in quel caso diminuisse la tragedia. La verità è che la gravità del gesto amplia le responsabilità; sperare che non siano stati dei ragazzini è un meccanismo di difesa e rimozione.
Non voglio nascondere le responsabilità e confondere i piani. L’uomo che è stato assassinato, si chiamava Cristian Sebastiano, aveva 42 anni, è la vittima. Dare una sorta di comprensione, o giustificazione, a chi lo ha ucciso, per la giovane età, è sbagliato. Non sono sicuro di aver usato i termini corretti per esprimere questo pensiero, ma spero che si capisca il senso. Quando però, appena usciti dall’infanzia e prima di entrare nell’età adulta, dei ragazzi sono coinvolti in un atto criminale, lo schema della responsabilità individuale e della giustizia che condanna il crimine non è sufficiente.
Siamo chiamati a sentirci sconfitti. Non è un campo su cui ho esperienza, e non dirò altro.
Vorrei invece condividere alcuni pensieri sul contesto di questa tragedia, dopo averci ragionato a mente più fredda, qualche giorno dopo. Mi sono chiesto se la mia iniziale sorpresa di fronte alla notizia di un omicidio a Monza fosse motivata da un auto-illusione di vivere in una città con poca criminalità violenta.
Ho cercato i dati sugli omicidi a Monza. Ho trovato un rapporto del 2019, riportato dal Sole24Ore, che parla di 13 omicidi volontari in tutta la provincia di Monza e Brianza. Non sono pochi, però possiamo dire che un omicidio nella città di Monza è ancora un evento poco frequente, fortunatamente.
Lo stesso non possiamo dire dello spaccio e della diffusione di droghe, soprattutto droghe pesanti. Sulla nuova diffusione di droghe pesanti sono stati recentemente sollevati numerosi allarmi e abbiamo constatato tristemente risposte parziali e inefficaci. Qualche operazione “spettacolare” a favore di telecamera, per mostrare i muscoli nel contrasto allo spaccio, senza però mettere altrettanta attenzione a supporto dei servizi sociali e alla realizzazione di alternative educative di prevenzione e socialità.
La situazione è stata resa ancora più grave dal difficile contesto di questo anno, nell’impossibilità – causa Covid – di fare scuola in presenza, ammesso che si sia precedentemente riusciti a contrastare la dispersione scolastica per i ragazzi più fragili. Cosa avremmo dovuto fare e cosa possiamo fare? L’omicidio è avvenuto in via Fiume nel quartiere san Rocco. Poco sarebbe cambiato se fosse avvenuto in un qualsiasi altro quartiere.
Scrivevo all’inizio che alcuni meccanismi psicologici spingono ad un diverso coinvolgimento se un particolare ci rende più o meno vicino un certo evento. Io sono nato e cresciuto a Cederna e ormai da parecchi anni abito tra San Biagio e Triante. Ho però alcuni chiari ricordi dei quartieri di san Rocco e sant’Alessandro, in cui da giovane ho prima frequentato e poi prestato servizio nel gruppo locale degli scout.
In quella sede di San Rocco, lontana da casa mia, ero capitato perché, dopo una serie di “fusioni”, vi era confluito anche il gruppo nato nei primi anni novanta a Cederna, al quale i miei genitori mi iscrissero perché a otto anni non volevo andare all’oratorio. Un ricordo chiaro di S. Rocco e S. Alessandro è la ricchezza e l’orgoglio delle iniziative fatte dalla gente del quartiere verso il quartiere, e non solo.
Le associazioni sportive, il CAG Bussola, le edizioni di Cento Strade per Giocare, i “Road to Zambia”, e sicuramente l’elenco non è completo e aggiornato. Di fronte a questo sforzo, posso solo immaginare quanto ancora maggiore sia l’amarezza in chi ha dato tanto, in termini educativi e di impegno sociale e culturale, proprio per prevenire o contrastare le condizioni da cui poi nascono fatti criminali. Per questo mi sento di dire a tutti coloro che condividono questo sgomento: coraggio!
Non dobbiamo cedere all’amarezza. Non esistono singole azioni risolutive. Molti cittadini avranno ormai riconosciuto il bluff di chi propone una singola soluzione per ogni problema. Problemi complessi necessitano di studio, pazienza e impegno, anche di fronte a sconfitte devastanti come questo omicidio.
Dovremo chiedere più fondi e personale per i servizi sociali, assunzioni stabili con progetti a lungo termine per i servizi educativi di strada, personale formato e in numero adeguato ad agganciare e recuperare chi è in situazione di tossicodipendenza, chiedere un rapporto sull’abbandono scolastico specifico a Monza, più offerta di tempo pieno e supporto alle iniziative extra-scolastiche, maggiore presidio delle forze dell’ordine nelle periferie.
Dobbiamo chiedere conto ad alta voce a chi sbandierava la caccia allo straniero come soluzione dei problemi di criminalità, a chi ha fatto sceneggiate al citofono in giro per l’Italia, a chi – nella nostra realtà locale, ha attribuito come unica azione di sicurezza una mera repressione di facciata. Guardando all’orizzonte della prossima amministrazione, una comunità politica che condivide l’idea che sicurezza ed educazione siano due aspetti fortemente connessi, dovrà investire con coraggio ancora di più nel supporto ai servizi educativi, dandogli spazi e personale, sostenendo ancora di più stanziamenti a bilancio in queste voci. In più dovremo riuscire a scrollarci di dosso la falsa impressione, che ci è stata cucita addosso dai nostri avversari, di non stare dalla parte delle forze dell’ordine.
La sicurezza è una nostra priorità, non è un tema su cui siamo in difesa.
L’approccio che riporta tutto alle “retate” nei “parchetti” semplicemente non basta e non funziona, perché spostare un problema non significa risolverlo. La sicurezza nei quartieri non passa da improbabili regolamenti urbani fitti di divieti, ma da socialità, iniziative culturali, negozi e piazze aperte (e pedonali) in sicurezza, strade ben illuminate e presenza concreta delle forze dell’ordine.
La via per tenere i nostri figli al sicuro dalle dipendenze passa dall’educazione e dall’alleanza tra tutte le agenzie educative.
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