Caro Ennio, il tuo articolo riguardante il ddl Cirinnà, che ho letto più volte attentamente -prende le mosse da un parallelismo che non condivido – e che mi pare ardito - tra matrimonio eterosessuale e desiderio di comunità, da una parte, e riconoscimento delle unioni civili e inseguimento dell’individualismo sfrenato, dall’altra.
Partendo da questo assunto sostieni che il ddl Cirinnà - cerco di sintetizzare - sarebbe da contrastare per il fatto che tenderebbe, cito testualmente, ad “adeguare le Unioni Civili tout court alle famiglie tradizionali, anche in termini di adozioni”: conseguenza che, secondo la tua visione, cozzerebbe con il desiderio, colto dall’indagine di SWG di cui parli, di quei “valori di comunità” opposti a quelli dell’individualismo.
Due persone si amano, decidono, vincendo i rispettivi egoismi, di costruire un progetto di vita insieme, per questo rinunciano, come avviene in tutti i rapporti di coppia, a parte del proprio egoismo e centralismo esistenziale. Se sono eterosessuali hanno un encomiabile desiderio di comunità. Se invece sono omosessuali rappresentano il trionfo dell’individualismo.
Si tratta di un corto circuito logico, mi vien da dire.
Ma ancor meno convincente è la proposta che fai di quella che potremmo chiamare “la modica quantità di decreto Cirinnà”, proposta secondo la quale dovremmo orientarci verso un testo legislativo appena sufficiente - q.b., quanto basta, si scriverebbe in una ricetta – a, cito ancora, “contrastare l’omofobia” o a “sanare lacerazioni nel tessuto sociale e rendere ufficialmente lecite quelle unioni”.
Su questo, caro Ennio, dissento totalmente: dare un riconoscimento alle unioni omosessuali, in un paese civile e laico, non può essere mai uno strumento: deve essere un fine.
Per me il riconoscimento delle unioni omosessuali non può costituire il mezzo per perseguire un “fine altro da sé”, sia pure la lotta all’omofobia o la cucitura di lacerazioni del tessuto sociale: per questo esistono già il codice penale e la sociologia.
No. Il fine che il DDl Cirinnà deve avere - come di fatto ha - è quello di garantire a chiunque abbia un legame affettivo di vederlo riconosciuto, socialmente e giuridicamente, né più ne meno come tu, col matrimonio con tua moglie - parlo di quello civile, ovvio - hai visto riconosciuto il tuo legame d’amore con lei davanti alla società nella quale vivi e per le leggi dello stato del quale sei cittadino.
E tu, o io, non siamo più cittadini di altri amici o conoscenti che incrociamo, che hanno il nostro stesso passaporto, pagano le tasse come facciamo noi, votano come noi, magari tifano perfino la nostra stessa squadra, amano il compagno o la compagna di vita come facciamo noi, ma che, molto semplicemente, hanno un orientamento sessuale diverso da quello che abbiamo io o te.
Le cose non sono mai scontate o “piane” come possono apparire al primo sguardo: e certe affermazioni apodittiche che ci paiono inconfutabili quando le applichiamo alla tesi che vogliamo sostenere possono trasformarsi - se portate coerentemente fino in fondo - nell’argomento cardine di una tesi che, al contrario, vorremmo confutare.
L’esempio concreto me lo fornisci tu nel tuo scritto.
Te la prendi con la Cassazione, rea di avere giudicato incoercibile – giuridicamente parlando, ovvio – il desiderio di avere un figlio; sostieni addirittura che le argomentazioni della Suprema Corte – che son certa tu abbia letto integralmente, e più volte, avendo dato un giudizio così definitivo – sono un “florilegio giuridico” che avrebbe, niente di meno, “fatto rabbrividire i nostri migliori giureconsulti”.
Va bene. Ci sto.
Per amore di ragionamento mettiamo pure che la Cassazione abbia preso una solenne cantonata e che avere un figlio non possa essere mai un desiderio: e un mai, per definizione, aggiungo io, è mai sempre, per tutti, in ogni momento e per qualunque ragione.
Caro Ennio, tu capisci che, sviluppando con coerenza il tuo argomentare, una coppia eterosessuale e sposata, con gravi difficoltà a concepire un figlio, non potrebbe rivendicare alcun diritto di accedere alla fecondazione assistita, omologa o eterologa che sia: se avere un figlio non è né diritto – dico bene? – né un desiderio incoercibile, che si rassegnino a non avere figli.
La natura - che spesso viene arbitrariamente confusa con la volontà di Dio - nella sua infinita saggezza, nel suo imperscrutabile disegno di sviluppo armonico del creato, ha deciso che quell’uomo e quella donna – per un ragione a noi sconosciuta, ma esistente e non superabile – non possono o devono diventare genitori: la natura sa qualche cosa che noi non sappiamo e saggiamente dispone.
Ti sembra questa una logica accettabile e coerente?
Fai cenno, senza approfondire l’argomento, alla delicata questione dell’utero in affitto o maternità surrogata: non è questa la sede di trattare l’argomento posto che, come tu stesso dici, non è oggetto del provvedimento in discussione al Senato.
Non sfugge a nessuno che il tema tocchi questioni etiche profonde, e chi lo nega è un superficiale. Così come è superficiale chi ha già la risposta in tasca – in un senso o nell’altro - e non è disposto neppure ad approfondire e ragionare.
Ma il punto non è cosa penso io, o cosa pensi tu, piuttosto che la Chiesa cattolica o il Rabbino capo di Roma, dell’utero in affitto. O cosa penso io o cosa pensa un testimone di Geova delle trasfusioni di sangue. O cosa pensavano i cattolici o i mormoni, o piuttosto gli atei, del primo trapianto di cuore fatto da Christiaan Barnard nel 1967.
A chi ha tempo e voglia suggerisco di documentarsi su cosa fu scritto in quei giorni contro il cardiochirurgo sudafricano: questo a dire di quanto possono essere flessibili ed elastici nel tempo e nello spazio i cd. valori non negoziabili.
Il trapianto di un cuore è passato dall’essere un abominio contro Dio e contro l’uomo a “routine” medica. E son passati poco meno di 50 anni, non mille.
Le leggi non servono a decidere ciò che è eticamente giusto e cosa no. Per la semplice ragione che non esiste un’etica sola, immutabile, inderogabile. Solo le fedi hanno la pretesa di essere le uniche verità. Ma la fede resta fede, e non deve farsi legge: quando lo diventa o lo è diventata, nel presente come nel passato, l’umanità ne ha pagato, come ne paga ancora oggi, un prezzo inaccettabile.
Le leggi, in uno stato laico - dove si cerca, o almeno si dovrebbe cercare, di far coesistere pacificamente diversità di pensiero e di sentimento - deve creare le regole perché vi sia la migliore delle convivenze possibili anche - direi soprattutto - tra etiche diverse: tra chi vuole la trasfusione e chi no, tra chi vuole il trapianto e chi lo rifiuta. Tra chi vuole sposarsi con un compagno del suo stesso sesso o e chi lo vuol fare con un compagno del sesso opposto.
La migliore delle convivenze possibili, per me – usando le parole del grande Martin Luther King - e quella nella quale la mia libertà finisce dove comincia quella degli altri, così come quella degli altri finisce dove comincia la mia.
Punto di equilibrio terribilmente difficile da trovare nella vita concreta: e tuttavia mi pare l’unico orizzonte possibile.
E poco rileva se il diritto da tutelare per fare un altro passo verso quell’orizzonte sia di mille persone, di centomila o di un milione: non ho mai saputo – mai nessuno dei miei docenti di diritto me lo ha insegnato - che la necessità di tutela di un diritto fondamentale fosse direttamente proporzionale al numero di soggetti portatori di quel diritto.
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