La notizia di una rissa tra detenuti presso il carcere di Monza ha recentemente interessato l'attualità locale. Il problema delle carceri – non è una novità – è una macroquestione che interessa non solo Monza, ma tutto il paese. La tematica è ampia e complessa ma Monza non può esimersi da un'analisi attenta. Basti ricordare che presso la struttura di via Sanquirico sono ospitati oltre 600 detenuti. Abbiamo fatto due chiacchiere con Franco Petrelli, volontario da 7 anni per l'associazione Carcere Aperto e presidente onorario dell'associazione monzese Giudici di Pace.
«Il carcere è un luogo di convivenza forzata nel quale non sempre emergono i valori positivi di una comunità. È un discorso che non riguarda soltanto i detenuti ma anche le figure professionali che vi operano all'interno. Penso agli agenti di polizia giudiziaria, per esempio, chiamati a un mestiere quantomai difficile e spesso poco riconosciuto. Ma anche agli educatori, agli psicologi e agli assistenti sociali».
Qual è la situazione monzese?
Non direi che Monza si caratterizzi in modo significativo rispetto al resto del paese. La casa circondariale di Monza è destinata ad accogliere detenuti condannati a pene non particolarmente lunghe, imputati o persone in attesa di sentenza. È una promiscuità dannosa e difficile da gestire. Carceri come Opera o Bollate, che hanno peculiarità diverse e detenuti che vivono in comunità più a lungo, sono sotto questo aspetto maggiormente governabili. Tuttavia, la struttura monzese ha fatto passi in avanti negli ultimi anni, specialmente per quanto concerne l'umanizzazione del trattamento carcerario.
Le amministrazioni possono fare di più?
Sì, come tutti. Le carenze sono molte e su queste carenze si può tentare di agire. Non possiamo dimenticare che c'è un problema di finanziamenti e che il carcere di Monza ha avuto anche gravi mancanze strutturali. Il teatro e la chiesa sono tuttora inagibili. Il punto di partenza possono essere i molti movimenti che operano per tentare di dare un'immagine diversa. Se consideriamo il reato come una ferita inferta al corpo della società e il carcere come un tentativo di rimarginare questa ferita non possiamo non arrivare alla conclusione che troppo spesso, al contrario, il carcere si rivela un fattore criminogeno che aggrava la situazione. I dati dicono che il 75% di coloro che hanno subito carcerazione ricadono in reati. Insomma, il carcere nella maggioranza dei casi non “serve da lezione”.
Come agire, dunque?
Modificare il sistema carcerario. La privazione della libertà agisce individualmente e investe molti aspetti della vita del carcerato e della sua famiglia, che non sempre sopravvive al trauma. Insistere sulla scuola e sull'offerta di lavoro interna al carcere. Considerare i detenuti come persone con una loro dignità, provare ad aiutarli. E operare sul piano della depenalizzazione, ridurre la custodia cautelare e considerare misure alternative al carcere come succede in Francia e in Inghilterra, dove solo il 25% dei condannati finisce in carcere. Servizi sociali, detenzione domiciliare, semilibertà. Ci sono una miriade di aspetti che possono essere considerati per ridurre la distanza tra la “città parallela” carceraria e la società.
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