Ovvero il cinema che non conosce (ancora) l’Olocausto. Film di Lubitsch del 1942, visto il 28 gennaio al Teatro Villoresi. E’ stato il contributo di Procultura alla Giornata della Memoria. E’ un bel film, che si vede volentieri dopo i settant’anni dalla sua uscita; l’anno scorso, credo, è stato digitalizzato e rimesso in circolazione con un certo successo: ha il fascino del bianco e nero, ottimi attori e qualche inevitabile imperfezione (doppiaggio, qualità della fotografia) dovuta al tempo trascorso.
Racconta la vicenda di una compagnia teatrale di Varsavia che deve interrompere la sua attività a cause dell’invasione tedesca della Polonia, nel 1939. Il loro teatro viene requisito perché vi si svolgano spettacoli per le truppe occupanti e, in uno scenario di case distrutte dai bombardamenti, trovano rifugio in una cantina. Vengono coinvolti involontariamente in una storia di spionaggio ma riescono a venirne fuori, riuscendo addirittura a fuggire in aereo per l’Inghilterra, grazie alla loro abilità di teatranti.
Il film ha il tratto leggero della commedia: i protagonisti sono simpatici e garbatamente spiritosi, gli attori non protagonisti sono degli ottimi caratteristi, nelle situazioni drammatiche c’è sempre una nota di comicità, non manca il classico “menage a trois”, i cattivi non sono troppo cattivi, e così via. Però assistendo alla proiezione si prova un senso di disagio.
Lubitsch, nato in Germania da famiglia ebrea della buona borghesia, si era trasferito ad Hollywood negli anni ’20, ai tempi del “muto”, già apprezzato regista di film in Europa. Era diventato famoso in America come regista di commedie garbate e brillanti. Aveva quindi forse perduto la cognizione diretta del dramma degli Ebrei in Germania, dalla Notte dei Cristalli in avanti. Certo nel 1942 esistevano i campi di concentramento (se ne parla anche nel film), ma ancora non si sapeva il destino che attendeva gli internati. Ma qualche intuizione c’era, perché ad esempio uno degli attori è ossessionato dal monologo di Shylock nel Mercante di Venezia, monologo dell’essere gli Ebrei come i Cristiani (…Se ci ferite noi non sanguiniamo? Se ci solleticate , noi non ridiamo? Se ci avvelenate noi non moriamo? E se ci fate un torto, non ci vendicheremo?...)
E allora perché una commedia? Forse era l’unica maniera per sensibilizzare il pubblico americano (l’America non era ancora entrata in guerra)? Forse. Il prof. Tagliabue, critico cinematografico di Procultura, ha voluto accostare questo film a “Il grande dittatore” di Chaplin, del 1939, dove Hitler e Mussolini vengono rappresentati come caricature comiche e grottesche. Dall’America l’Europa sembrava coinvolta in un conflitto “normale”?
Ahimè, qualche anno più tardi né Chaplin né Lubitsch avrebbero girato film così!
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