Teatro civile nel senso più pieno dell’espressione quello andato in scena Sabato sera 24 novembre al Teatro Binario 7 di Monza.
In una sala gremita di persone Elio De Capitani e Renato Sarti hanno fatto rivivere una delle pagine nere della storia del dopoguerra, ancor più nera perché sconosciuta ai più e per lungo tempo taciuta.
Nel 1948 il maresciallo Tito (leader della resistenza jugoslava contro il nazifascismo) ruppe con Stalin, non volendo accettare il predominio sovietico sul giovane stato socialista jugoslavo. Nel Paese iniziò la caccia a tutti coloro che erano sospettati di stare dalla parte di Stalin.
Bastava poco per incappare nell’accusa di “cominformismo” e per essere condannati a una pena “rieducativa”.
Molti – circa 14.000 - furono i condannati spediti a Goli Otok (l’Isola Calva), un isolotto dell’arcipelago del Quarnaro trasformato in gulag, dove gli uomini erano sottoposti alle più inimmaginabili vessazioni e al più totale abbruttimento fisico e morale.
Nelle maglie della repressione finirono molti comunisti, partigiani, combattenti della guerra di Spagna, deportati nei lager nazisti (scampati lì alla morte e per ironia della storia condannati ad altre torture e umiliazioni). Ci finì anche Aldo Juretich, allora giovane studente di medicina a Zagabria e membro della cellula comunista universitaria.
Attraverso il dialogo che si snoda sulla scena tra Aldo (Elio De Capitani) e un medico (Renato Sarti), quella vicenda individuale diviene paradigma dell’orrore del totalitarismo e ci pone dinanzi alla domanda “come può accadere tutto ciò?”.
La domanda che si poneva anche Primo Levi, sopravvissuto al campo di concentramento di Auschwitz, quando ci ammoniva che “è accaduto, può accadere di nuovo”. Come del resto abbiamo visto accadere nella stessa guerra tra Bosnia e Serbia, ma anche a Guantanamo, e a casa nostra, a Bolzaneto durante il G8 del 2001. Con l’aggravante, se vogliamo, che nel caso di Goli Otok vittime e persecutori condividevano il medesimo orizzonte ideologico.
La storia di Aldo Juretich e di molti suoi compagni è rimasta sconosciuta per decenni; è venuta alla luce poco per volta, grazie al lavoro tenace di Giacomo Scotti (saggista e scrittore), che alla fine degli anni ’80 convinse Aldo a rilasciare la sua testimonianza. Altri poi lo imitarono, infrangendo l’impegno che era loro stato estorto di non fare mai parola di quanto subito, pena possibili ritorsioni sui familiari stessi.
Il 5 novembre 2011 Aldo Juretich, divenuto cittadino monzese, è morto. Ma ora la sua vicenda può essere narrata e possiamo custodirne la memoria, anche attraverso le parole della moglie Ada, che sottolinea come il marito continuasse a credere negli ideali socialisti, nella solidarietà, nell’uguaglianza e nella pace, a dispetto dei torti subiti.
Sabato sera, al termine dello spettacolo, sono intervenuti Giacomo Scotti, Ada, il sindaco Roberto Scanagatti e due giovani donne, nipoti di altri ex detenuti di Goli Otok.
Un momento in cui politica, storia, arte e ricordo individuale si sono fusi in un unico discorso che ha per filo conduttore l’impegno a rimanere umani e, per la città di Monza, a conservare la memoria di chi ha saputo subire senza mai odiare, senza denunciare chi lo aveva tradito.
Aldo diceva che “la gente non vuole sapere, sennò soffrirebbe troppo”. Renato Sarti, invece, ha sostenuto che una parte di sofferenza dobbiamo prendercela anche noi: è necessario che il dolore privato diventi pubblico, deve far parte di tutta la comunità, perché tutti dobbiamo sentircene responsabili. Così come ha fatto Elio De Capitani, che sul palco ha vissuto per noi la vita di Aldo, che - come attore - ha “indossato” la sua anima.
Se i libri, le parole scritte, sono i “depositi di anime”, Elio De Capitani si è messo dentro le parole del libro e ha restituito loro carne.
Si è infilato un pezzettino dell’anima di Aldo e l’ha fatta rivivere. È stato Aldo e il senso della storia di Aldo, senza essere Aldo. Con questa laicissima operazione, l’attore ha compiuto un patto fondamentale tra passato e presente, nel nome del futuro, facendosi carico della testimonianza e mettendo in gioco anche tutto il proprio vissuto.
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