Francesco Zanot ha chiuso il ciclo di Conferenze sull’arte organizzate da Novaluna nell’ambito della mostra all’Arengario sulle antiche stampe, il critico fotografico e curatore di mostre Francesco Zanot.
Il quale è partito dalla storia della fotografia per seguirne gli sviluppi tecnologici, le modalità di rappresentazione del contesto sociale ed infine il suo traguardo, nelle sue più elevate espressioni, come vera e propria arte.
Tra le innumerevoli tracce da seguire nella conferenza, Zanot ha privilegiato quella “americana”, di cui è particolarmente esperto. Cioè ha voluto illustrare l’evoluzione della fotografia attraverso i grandi fotografi americani succedutisi nei cento anni che vanno dalla metà del 1800 alla metà del 1900.
Si comincia con Samuel Morse (proprio lui, l’inventore dell’omonimo alfabeto!), che, avendo conosciuto Daguerre (scopritore del sistema per ottenere immagini per effetto della luce) a Parigi (1838), ne portò in America le tecniche e gli stili. Morse era un tipo eclettico, si interessava di pittura e scultura e in seguito si appassionò alle tematiche della comunicazione potremmo dire “digitale”, ma fece in tempo, tra le mille attività, ad insegnare le tecniche della fotografia. Uno dei primi allievi fu Mathew Brady, che dedicò invece interamente la sua vita alla fotografia.
Occupa un posto importante nella storia della fotografia il set di foto che Brady e i suoi aiutanti scattarono durante la guerra civile americana (1861-65). Impressiona il realismo delle immagini scattate nei campi di battaglia, realismo che scandalizzò i benpensanti dell’epoca, convinti che tali crudezze dovessero restare nascoste.
Facciamo un salto di qualche anno e troviamo Alfred Stieglitz, grande fotografo (famosissima la foto “Tram a cavalli nella neve di New York” del 1893) ma anche grande organizzatore di eventi culturali, editore di riviste di fotografia e molto attento ai movimenti artistici anche europei del suo tempo (fonderà nel 1902 il movimento dei fotografi americani “secessionisti”, in polemica con le tendenze più conservatrici).
Ancora, più avanti, Paul Strand, rivelatore degli aspetti più critici della società americana dei primi decenni del ‘900. A lui si devono le immagini sull’immigrazione, anche italiana (molte le foto scattate a Ellis Island, porta obbligata per l’immigrazione in America) e sull’emarginazione sociale (un classico è “Blind” del 1916). Strand contribuì insieme a Stieglitz ed altri, all'inizio del XX secolo, a conferire alla fotografia la piena dignità artistica. In polemica con il “pittoricismo”, che si rifaceva alla pittura come modello artistico tout court, il gruppo della “straight photography nord americana” poneva alla base della qualitá formale delle loro fotografie proprio il fattore tecnico meccanico che per anni era stato proprio quello che l'aveva distanziata dal mondo dell'arte.
Infine, arriviamo agli anni ’50. Nel 1955 un giovane fotografo svizzero, Robert Frank, ottiene una borsa di studio dalla Fondazione Guggenheim per realizzare un lavoro fotografico sull'America. Per due anni, tra il 1955 e il 1956, Frank percorre il paese, sovvenzionato dalla Fondazione, toccando ben 48 stati diversi. Strade, volti, città, bar, negozi, marciapiedi, un lunghissimo viaggio, un immenso reportage. Frank fotografa quello che vede, anche le cose scomode, tant’è che (siamo negli anni che seguono il “maccartismo”) può pubblicare il libro fotografico intitolato “Gli Americani” (un classico!), con introduzione di Jack Kerouac, solo a Parigi nel 1958. Solo anni più tardi verrà ristampato in America.
Qui si conclude la conferenza di Zanot, consapevoli, conferenziere ed ascoltatori, di aver sentito e visto una piccolissima parte dell’immenso mondo della fotografia.
Gli ascoltatori, peraltro, hanno potuto vedere una bella rassegna di foto dei fotografi citati nell’articolo e anche di altri, alcune qui segnalate. Consiglio vivamente agli interessati, per una maggior completezza, di cercare in Internet le opere di questi grandi fotografi: ne vale veramente la pena!
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