La geopolitica non è una disciplina, o non lo è ancora. Essa è definibile come un concatenamento opportuno di dati fattuali che spiegano un determinato fenomeno attuale. Si prelevano concetti e nozioni dalle discipline delle scienze politiche e li si inseriscono in una logica di causa-effetto rispetto ad una realtà attuale. Dobbiamo quindi definire l’origine, lo sviluppo ed ipotizzare le possibili evoluzioni all’interno del quadro formato dai punti di vista analitici delle scienze politiche (sociologia, economia, storia, filosofia politica…) cercando di determinare quali sono i fattori perpetui e conduttori delle relazioni internazionali.
La geopolitica, termine di cui si abusa, non è la geografia della politica ne la politica della geografia. È opportuno, quindi, tentare di fare chiarezza su come si articolano le dinamiche internazionali partendo dalla definizione di Nazione: un popolo che si riconosce in quanto tale, si aggrega in un’unità e si stanzia in un luogo geografico ritenuto come di propria origine dandosi delle regole di convivenza civile. Le regole di convivenza civile iniziano da una Costituzione e si articolano nello Stato.
Friederich Ratzel definì lo Stato (che è parte della Nazione) come “un organismo vivente in movimento”: un organismo vivente in movimento, per muoversi, ha bisogno di nutrimento; quindi, come si muove uno Stato per trovare le risorse necessarie alla propria sopravvivenza e, possibilmente, crescita. Di nuovo Ratzel ci viene in aiuto per riassumere con una parola quanto appena esposto: “Liebensraum”, ovvero, lo spazio vitale. Uscendo dall’ambito filosofico puro e cercando “un anno zero” di questi concetti nella sfera delle relazioni internazionali si individua immediatamente nella dottrina Monroe la prima applicazione del concetto di spazio dello Stato. James Monroe, 5° Presidente degli Stati Uniti d’America, dal 1817 al 1825, traccia sulla cartina geografica il concetto di Occidente, lasciando intendere alla comunità internazionale dell’epoca che tale area sarebbe stata di pura competenza USA e che gli stati europei alle prese con la restaurazione post-napoleonica non vi avrebbero dovuto porre alcuna attenzione; l’area in questione è da considerarsi dalla verticale dell’Oceano Atlantico sino alle coste asiatiche e russe sull’Oceano Pacifico; esiste un polo nord ed un polo sud, non un polo est ed uno ovest.
La cartina geografica eurocentrica, ovvero centrata sul meridiano di Greenwich del mondo passa così ad essere considerata obsoleta dagli USA o, se non altro, l’Europa non è più il centro del Mondo. L’amministrazione Monroe fu spinta a porre tale “linea di confine” poiché, dopo le guerre di liberazione del sud America dalle colonie europee ed il periodo di grandi cambiamenti storici che aveva vissuto l’Europa - Rivoluzione Francese ed epoca napoleonica – gli stati europei avevano raggiunto un accordo sulla spartizione del potere ed i nuovi (vecchi) confini pre-Napoleone; in qualche modo, lo spirito collaborativo che aveva animato il Congresso di Vienna e la restaurazione dell’Ancien Regime fu il campanello d’allarme in prospettiva colonialista, ovvero, si presunse, da parte degli Stati Uniti d’America, la volontà delle monarchie europee di ristabilire anche il proprio dominio coloniale, appunto, in America. Carl Schmitt dirà “la dottrina occidentale è nata in funzione antieuropea”.
Fondamentalmente, è il concetto di “confine” che cambia: esso prevarica lo stanziamento di un popolo su un pezzo di terra ed i relativi trattati internazionali che definiscono delle linee immaginarie invalicabili e si espande nei mari; il mare non è di nessuno e diventa un enorme assieme di gradi strade che abbattono, appunto, ogni confine. Fa la sua comparsa, quello che è definibile come l’elemento cardine di ogni cambiamento nella storia: lo sviluppo tecnologico-militare. La tecnologia.
È la leva che solleva e cambia il mondo e che costituisce l’interesse degli Stati a partire dal 1830 in avanti, poiché i mari vanno solcati e navigati, le direzioni individuate, le (nuove) rotte tracciate ed i nemici affondati. I nemici, non i popoli che vivono negli scali portuali e nell’immediato entroterra.
Il “Sea power” è il primo vettore della ridefinizione dei reali confini dello stato e, in un’ottica di supremazia delle potenze mondiali, il trampolino di lancio per la tessitura di nuove relazioni internazionali commerciali, con Stati che possano garantire la sicurezza delle rotte e dei porti nei quali far fare scalo alle proprie navi; fu Alfred Mahan, ammiraglio della flotta statunitense, in “The influence of sea power”, ad esprimere questi concetti che individuò come fattore primario d’interesse per la politica estera, delineando le relazioni tra stati volte al dominio sui mari. Tout court, la corona britannica lo prese in parola.
La cartina che ho trovato sul web (sul sito www.geopolitica.info) riassume bene l’espansione marittima ed il conseguente dominio sui mari dell’impero britannico nel 19° secolo. Dobbiamo tenere conto che l’Inghilterra è un’isola il cui clima non permette uno sviluppo agricolo che possa soddisfare il fabbisogno alimentare del popolo inglese, quindi, il reperimento delle risorse primarie oltre mare, diventa la soluzione più a portata di mano; in realtà, la nobiltà britannica sfruttò tale necessità per accaparrarsi ben di più di quanto necessario e meramente utile alla sopravvivenza.
Ritornando al Sea power, possiamo concludere che per affermare il proprio potere all’interno delle potenze mondiali servono rotte sicure, porti sicuri, territori e stati costieri quanto meno collaborativi.
Qual è il limite di una nave e di eserciti che si spostano sulle navi? L’entroterra; per quanto possa essere numeroso un esercito non è pensabile utilizzarlo in massa per colonizzare territori interni protetti da Stati il cui esercito è totalmente presente in loco poiché non impegnato in operazioni esterne, o comunque che possa raggiungere il luogo di un’ipotetica battaglia in tempi più brevi rispetto alle vie marittime. Si palesa, agli occhi delle potenze marittime, il limite della loro espansione e, al contempo, per le potenze di terra - Impero di Russia su tutti – diventa di primaria importanza la maggior colonizzazione continentale volta alla propria espansione territoriale ed al contenimento delle espansioni marittime. La teorizzazione di questa dinamica trova suo padre in Halford Mackinder, il quale definirà il “Land power” e porrà in attenzione il nuovo mezzo tecnologico più rapido per lo spostamento su terra: le ferrovie.
E’ quindi la collocazione geografica senza sbocchi sul mare, o comunque su mari poco navigabili, che determina la scelta dell’Impero zarista, il quale si fa portatore di un metodo che comunque verrà utilizzato anche dalle potenze navali; ma la differenza sta nel fatto che via mare puoi colonizzare solo i punti del pianeta che ti interessano mentre, via terra, devi per forza pensare alla necessità di attraversare più stati per raggiungere l’obiettivo prefissato.
Ecco qua servito lo scontro ideologico: Sea power vs. Land power, Impero britannico vs. Impero russo. Questo conflitto per il potere tornerà più volte nella storia.
Proseguendo la disamina della non-disciplina si cercherà di effettuare una sintesi di come in realtà, pur abbandonando di fatto il dominio dei mari e della terra proprio del periodo colonialista, i rapporti tra Stati non si siano interrotti ma, al contrario, si siano evoluti secondo le dinamiche proprie delle relazioni internazionali, di trattati e di rapporti di potere che, di fatto, fungono da leva influente sulle politiche interne di chi subisce una situazione di sudditanza.
Il punto di partenza di questa riflessione è una dichiarazione unilaterale del Presidente degli Stati Uniti d’America, James Monroe, che curiosamente traccia una vera e propria linea di confine e definisce l’Occidente; da questa dichiarazione scaturisce la più comunemente conosciuta dottrina Monroe.
La dottrina scalfisce nell’acqua un messaggio ideologico contenuto nel discorso sullo stato dell’Unione pronunciato innanzi al Congresso il 2 dicembre 1823 ed esprime l'idea della supremazia degli Stati Uniti nel continente americano. Dal punto di vista meta-geografico tale concetto è identificabile come una linea di confine posta sulla verticale dell’Oceano Atlantico ma è il significato politico a farla da padrona: l’Europa sta vivendo il periodo della Restaurazione post-napoleonica, periodo nel quale ogni casata monarchica ristabilisce il proprio potere sul pezzo di terra europea usurpatogli dalle conquiste dell’Impero Francese ed è proprio il riassestarsi del dominio in Europa che preoccupa i neonati USA: si teme infatti che gli ex stati coloniali europei possano di nuovo attraversare l’Atlantico per colonizzare nuovamente il territorio americano. Monroe traccia quindi una vera è propria zona di demarcazione con tanto di cartello “ALT” rivolto agli europei.
Così facendo definisce geograficamente l’Occidente.
L’occidente è quindi l’America e l’Europa è L’Europa: alcuni stati europei hanno poi sposato o subìto, nel corso dei secoli, influenze occidentali od orientali ma l’origine degli elementi culturali che contraddistinguono gli europei è l’Europa, ne l’America, ne l’Oriente. L’isolazionismo statunitense che ne deriva verrà interrotto solo a Pearl Harbor, il 7 Dicembre 1941 dando vita al processo politico-economico di influenza degli Stati Uniti in Europa.
Ritornando immediatamente al concetto di Stato e di potere, inteso come il grado d’influenza che hanno alcuni Stati al di fuori dei confini tracciati sulle mappe, ovvero, detto in altre parole ed a partire dal momento in cui sono iniziati i primi scambi economici e finanziari, ci si sta per addentrare nei rapporti di potere ed amicizia o inimicizia tra stati.
L’argomento è chiaro: guerra e pace: sono le cause e le relazioni di potere che determinano il nascere e l’evolversi di una o dell’altra, le quali sono via via diventate sempre maggiori, più complesse ed intricate al punto tale da non poter quasi più prevederne il manifestarsi ed il concludersi. Thomas Hobbes e Carl Von Clausewits sono forse i due filosofi “prestati alla politica” che forniscono i quesiti di partenza della politica come dicotomia tra guerra e pace.
Partiamo dal 1945, ovvero dalla fine dell’ultima guerra di espansione coloniale (in Europa) e l’inizio dei nuovi modi per regolare le faccende tra stati e stabilire così una relazione di potere predominante basata su trattati internazionali; è doveroso partire dal primo trattato internazionale post bellico che però verte sul vecchio modo di fare la guerra: Il Patto Altantico.
Il Patto Atlantico traeva origine dalla percezione che il mondo occidentale (costituito da Stati Uniti d'America, Canada, Regno Unito, Francia, Norvegia, Germania, Italia e altri Paesi dell'Europa occidentale), dopo la Seconda Guerra Mondiale, stesse cominciando ad accusare tensioni nei confronti dell'altro paese vincitore della guerra, ossia l'Unione Sovietica, con i suoi Stati satellite.
Cominciava, infatti, a svilupparsi nelle opinioni pubbliche europee ed occidentali il timore che il regime sovietico potesse "non accontentarsi" della spartizione geografica generata, al termine della Guerra, da varie conferenze di pace e che, radicalizzando i contenuti ideologici della società, volesse intraprendere una mira espansionista per l'affermazione globale dell'ideologia comunista. Ciò generò un movimento di opinione che - anche grazie alle varie attività in tal senso organizzate dagli Stati Uniti d'America - cominciò a svilupparsi in modo generalizzato nei Paesi occidentali e che identificò una nuova assoluta necessità di garantire la sicurezza del mondo occidentale dalla minaccia comunista; la NATO, quindi, rispondeva all'esigenza di allearsi e di mettere a fattore comune i propri dispositivi di difesa, per reagire "come un sol uomo" a un eventuale attacco.
L’Unione Sovietica risponderà nel 1955 con il Patto di Varsavia che ufficialmente non è un patto “anti” ma è un trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza tra gli aderenti; bene, il termine chiave per questa analisi è proprio “assistenza”, che trova nella controparte occidentale la sua realizzazione sotto l’aspetto economico nel Piano Marshall, un trattato internazionale che pone gli stati contraenti in una relazione sfavorevole di potere con gli Stati Uniti d’America su principio economico. Il soggetto A aiuta il soggetto B per vincere una guerra contro il soggetto C; una guerra ideologica combattuta attraverso l’economia. Ecco i nuovi modi per affermarsi una potenza mondiale e per estendere i propri confini oltre la mappa e senza l’utilizzo di armi da fuoco: l’economia.
Da entrambe le parti si è assistito ad una progressiva ingerenza da parte di USA e URSS volta a fronteggiare una presunta minaccia militare reale, attraverso la costruzione di basi militari in terra straniera, vendita di armi e cooperazione militare sia in fase di addestramento che in teatri dove la guerra da fredda si è trasformata in calda, vedi Corea e Vietnam ed in ultimo Ucraina. Ma l’influenza non è stata solo war oriented ma anche politica e di indottrinamento della popolazione sul modello di vita dello stato cappello: non è possibile entrare nel merito di questo aspetto in quanto frutto di rapporti non ufficiali avvenuti tra i corpi di intelligence, figure politiche ed istituzionali ma si ritiene sia sufficiente sovrapporre gli stili di vita con il modello di vita del blocco appartenente che risulta subito chiara l’operazione di colonialismo informale durata decenni.
Si potrebbe discorrere per pagine e pagine, ore ed ore, di Guerra Fredda, USA vs. URSS e dei numerosi episodi dove la guerra “vecchio stile” si è sfiorata: l’aspetto che voglio sottolineare è che probabilmente non si è mai smesso di fare la guerra per colonizzare un pezzo di terra e sottomettere una popolazione, sono cambiati i modi, è aumentato il ventaglio di tipologie di guerra attuabili, ed i livelli di aggressività si sono attenuati lasciando spazi di sovranità nazionale e margini decisionali propri di una Nazione, di un popolo fatto di esseri umani liberi ed i cui diritti fondamentali sono tutelati da Organizzazioni Internazionali, per arrivare alla creazione di strumenti che permettono di scongiurare ogni conflitto armato, uno su tutti: la Politica.
Ucraina, Crimea, Afganistan, Siria, Palestina ed altri conflitti attivi di cui nessuno parla: perché ci si fa la guerra? Colonie.
I confini dello Stato, come argomentato sopra, escono dalle linee immaginarie e la Nazione si espande in quanto tentativo di assumere un controllo politico-economico volto all’accaparramento di un sempre maggiore quantitativo di materie prime che, in un mondo che volge allo sfacelo climatico, rappresentano la leva per porre in atto quella che diplomaticamente stiamo cercando di disciplinare come transizione ecologica ed energetica. Le materie prime dovranno essere conquistate con la forza, i popoli autoctoni sottomessi ed il loro benessere ridotto all’osso per la sete di potere dei pochi sui molti; è quindi la politica in quanto arte diplomatica della risoluzione delle controversie internazionali che dovrà imporsi sull’ultima ratio, oscena e disumana, sanguinaria ed indiscriminatamente criminale.
È compito improcrastinabile dell’attuale sfera politica predisporre il terreno di gioco della diplomazia delle future generazioni perché oggi, qualcuno potrà vincere una guerra ma domani il Mondo gliene chiederà conto e Madre Natura rimetterà tutto in equilibrio.
Claudio Balice Lissoni
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