È passato più di un mese da quando mi è stato chiesto di scrivere un contributo sui dieci anni del Partito Democratico. Credo che, inconsciamente, il continuare a rinviarne la scrittura non sia stato un caso. Troppe le confusioni, le amarezze. Troppo pesante la domanda: e adesso il Pd?
Ho ancora nelle orecchie e nell’animo i “rumori” dell’annunciata sconfitta in Sicilia, del partito dato per defunto prima del funerale, dell’ennesima zuffa interna: lo sport preferito dei media e del fuoco amico e nemico. Provo dunque a scrivere, forse può servire per fare chiarezza e alcune domande a me stesso. Ma il mio non sarà un nostalgico amarcord, ma il cercare di rileggere lo ieri alla luce di oggi.
Il Pd fu fondato dopo un lunghissimo “parto” da parte di tre componenti: i Ds, la Margherita e la cosiddetta “area ulivista” (dei senza partito della società civile), dalla quale provengo, essendo stato Presidente dell’Associazione Monza per l’Ulivo. A Monza fummo anticipatori di quel processo, costituendo prima la Lista e poi il Gruppo consigliare dell’Ulivo.
Ulivo. Sembra oggi essere diventata “la parola magica” alla quale tutti si richiamano (soprattutto chi ne ostacolò la nascita e impedì la crescita del Pd...). Il richiamo all’Ulivo come soluzione di tutti i problemi attuali del centrosinistra. Roba da mettere steso sul lettino dello psicanalista chi oggi lo evoca, dopo averlo affossato in passato. Nell’aspirazione originale di Romano Prodi l’Ulivo non doveva essere la semplice somma di partiti e partitini, magari capace di vincere le elezioni ma poi incapace di governare, l’Ulivo inteso invece come un soggetto politico ampio, plurale e soprattutto forza politica con cultura di Governo e portatrice di una modalità che permettesse al suo premier di governare.
Il Pd come sbocco naturale di questa idea dell’Ulivo?
A distanza di 10 anni sembra che si stia riproponendo il “vecchio schema” della coalizione “per vincere” (?) ma forse ancora una volta incapace di governare, per mancanza di un programma riformista vero e condiviso e di una legittimazione del proprio premier.
Un Pd che sin dalla sua nascita individuò nelle primarie lo strumento innovativo per poter scegliere il proprio leader e di conseguenza permettergli di governare. Quante volte abbiamo visto, dopo ogni primaria, una “non accettazione” del risultato (giusto o sbagliato che fosse) da parte delle minoranze perdenti? Sui giornali, nelle televisioni, in parlamento? Mancate accettazioni che tuttora arrivano a scissioni e logoramenti interni. Tutto a vantaggio degli avversari politici.
Un altro caposaldo fondativo del Pd fu la cosiddetta “vocazione maggioritaria”, aspetto che richiedeva di conseguenza un sistema elettorale maggioritario. Sappiamo anche qui come è andata: l’ultimo serio tentativo di conciliare maggioritario , governabilità e rappresentanza (con le preferenze), ovvero l’Italicum, è stato affossato da referendum e Consulta da parte degli stessi soggetti (media e politici) che adesso denunciano (con una buona dose di ipocrisia e con ragioni strumentali seppur vere), che con la nuova legge elettorale rischiamo l’ingovernabilità.
Da queste prime considerazioni, potrebbe passare una lettura che individua i “buoni e cattivi” della vicenda piddina di questi anni. Nossignori. Personalmente, dall’esperienza di Governo Renzi-Gentiloni, continuo a dare una valutazione sostanzialmente positiva su lavoro, scuola, diritti civili e sociali, riforma costituzionale. Si potrà essere d’accordo o no (io compreso) su alcune scelte ma è difficile negare che in trent’anni di immobilismo della sinistra, almeno il tentativo di cambiamento è stato fatto.
Ma il Pd (unico partito rimasto) aveva anche messo al centro nel suo atto fondativo le primarie come strumento di democrazia diretta innovativa e nel contempo promesso il superamento dei vecchi modelli fortemente strutturati, cercando di trovare un equilibrio tra necessità decisionale e partecipazione alla vita democratica a tutti i livelli, partendo dai territori. Guidare, fare e stare in un grande partito plurale, presupporrebbe il darsi due condizioni-vincolo: da una parte una conduzione del Partito il più possibile inclusiva e dall’altra che una volta presa una decisione, questa valga per tutti.
È stato così oppure è stato l’inizio della fine?
Che si chiamassero Bersani, Franceschini, Epifani e tanto più oggi Renzi, ci si è mai occupati seriamente del partito, dei processi organizzativi e partecipativi da riformare? Ci si è mai fermati a riflettere sull’esperienza delle primarie e sugli errori da correggere di uno strumento così prezioso? Ci si è mai fermati a riflettere se i Circoli territoriali erano diventati la brutta e inesistente copia delle vecchie sezioni? Non lo hanno fatto né i segretari né i congressi centrati sulle persone più che sui contenuti, né tanto meno la recente conferenza programmatica, che non ha minimamente preso in considerazione i diversi livelli del partito.
Il partito a tutti i livelli si è trasformato in un “comitato elettorale permanente”? Oggi le primarie, domani le comunali, dopodomani le regionali, e poi ancora le nazionali. Oggi tutti chiamati a sostenere (a prescindere) il governo nella nostra città (o quello nazionale) oppure a prepararsi (a prescindere) a fare opposizione? Niente di scandaloso (un modello simile c’è già negli Usa), ci mancherebbe altro, basterebbe esplicitarlo nelle mozioni congressuali e ognuno di noi, con chiarezza, potrà decidere di esserci o meno.
L’ultima domanda (a me stesso) si impone: c’è ancora spazio per “quel Pd”? C’è ancora spazio “nel Pd”?Sinceramente non lo so, me lo auguro con il sentimento, ma ho dei dubbi con la testa.
Eppure, pur dentro queste contraddizioni e condizioni, sì (per ora) mi sento ancora del Pd.
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