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davigoPiercamillo Davigo, ex pubblico ministero dell'inchiesta "Mani pulite" e attualmente consigliere in Corte di Cassazione, lo scorso 9 aprile è stato eletto per acclamazione presidente della Associazione Nazionale Magistrati. Non poteva esserci una scelta migliore.

Ho avuto la fortuna di conoscere personalmente il Dottor Davigo e, come ho avuto modo di dirgli una volta sorridendo – è una persona spiritosissima - è tutta “colpa” sua se oggi mi ritrovo a fare quel che faccio e potrei citarlo per danni.

Giurista finissimo, è un uomo abituato a ragionare sulle cose e non sulle persone. Tra le tantissime citazioni efficaci e dotte con le quali suole aprire la strada ai suoi ragionamenti, mi colpì una in particolare, da lui ricavata da un precetto della Chiesa: “La indegnità del sacerdote non rende invalido il sacramento”.

Che, tradotto in maniera prosaica, ha sempre significato per me una cosa condivisibile: giudicare le cose, o perlomeno sforzarsi di farlo, per quel che sono e non in base a chi le propone o le decide. Un’idea buona resta un’idea buona anche se a proporla è, miracolosamente, un emerito cretino. Così come un’idea cretina resta cretina anche se a proporla è, per disdetta, un vero genio.

Questo approccio laico alle cose del mondo fa ben sperare nell’apertura di una stagione nella quale, nel campo della giustizia, si ragioni finalmente, tra persone competenti, sulle questioni aperte e sui rimedi da adottare per risolverle.

I temi sono tanti, uno su tutti come rendere più efficiente la giustizia civile.

E per farlo, come ha detto giustamente Davigo, occorre partire dai problemi veri: che non sono, lo dico chiaramente, i giorni di ferie dei giudici. Se davvero pensiamo che la madre di tutti i mali sia quello, beh, prepariamoci a non vedere risolti per i prossimi 30 anni i veri problemi che affliggono la giustizia.

Come Davigo ha giustamente affermato in una recente intervista dalla Gruber – ma chi lo segue da anni sa che questo è un tasto sul quale batte da sempre – il problema della giustizia in Italia è un problema innanzitutto culturale: c’è qualche cosa di patologico in un sistema nel quale sono pendenti più cause che in tutta la Spagna, la Francia, la Gran Bretagna e la Germania messe insieme.

Questo significa che non esiste, in primo luogo nella società civile, quel primo livello di sanzione che, trattando con discredito chi si comporta “contra legem”, funge da dissuasore culturale della violazione delle norme: noi Italiani, ammettiamolo, non di rado giustifichiamo, quando non anche approviamo, illeciti di vario tipo e questo, ovviamente, fa venire meno una prima barriera contro la commissione di reati di varia natura.

Basta osservare quello che è successo recentemente con la vicenda dei Panama Papers: gli islandesi nelle piazze a protestare contro il primo ministro, reo di avere eluso il fisco, e alla fine costretto a dimettersi. Non perché destinatario dell’avviso di garanzia di un giudice, ma perché i suoi concittadini, con una sanzione morale, lo hanno ritenuto non più degno e credibile nell’occupare quella posizione.

Lo stesso Cameron in Inghilterra non se la sta passando affatto meglio e la vicenda, qualsiasi sarà il destino del suo governo, resterà una macchia tutt’altro che trascurabile, agli occhi dei suoi concittadini, sul proseguio della sua carriera politica. 

In Italia, per contro, quelle volte che la riprovazione sociale si fa sentire, lo fa spesso a “targhe alterne”: se si tratta degli altri, si diventa giudici severissimi, se invece riguarda noi, o la fazione alla quale apparteniamo, diventiamo campioni olimpici incontrastati nel trovare l’eccezione, a noi applicabile naturalmente, che conferma la regola.

E questo approccio morale alle cose, purtroppo, è il nemico più difficile da combattere: non bastano nuove norme o nuovi tribunali. Deve cambiare la testa.

Come racconta spesso Davigo per testimoniare questo “scarto” culturale, una volta chi si riteneva danneggiato da un comportamenti illecito altrui, gli diceva: “Se non la smetti, ti faccio causa !” e questo in parte bastava per sistemare le cose perché essere trascinato davanti alla giustizia era considerato un vero disvalore sociale.

Oggi invece chi ha torto non di rado, a chi gli chiede di cambiare la sua condotta, rivolge un beffardo: “Allora, fammi causa!”. Certo di avere dalla sua la lunghezza del processo ma anche, purtroppo, il sostegno di una subcultura che vede nella furbizia un pregio da ammirare e, non di rado, da invidiare.

Vorrei che si tornasse al Paese del “Se non la smetti, ti faccio causa!”.

 

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