Come ormai avviene su ogni argomento dello scibile umano, anche sul delicato tema dei licenziamenti sprint per fannulloni e assenteisti si è assistito per giorni, nei dibattiti politici come sui giornali, alla ineludibile contrapposizione italica da curve calcistiche: i cori vanno dal “ liberi tutti” al “tolleranza zero”. Ci manca solo il “non lasceremo nulla di intentato” e poi la terna degli slogan più usurati è completa.
Basterebbe tuttavia un approfondimento minimo del tema per rendersi conto di quanto la confusione regni sovrana – laddove, anche sui quotidiani più ”autorevoli”, la sospensione dal lavoro è diventata sinonimo di licenziamento, errore marchiano quanto sarebbe, per un cronista sportivo, confondere l’ammonizione con l’espulsione dal campo – e che molte delle questioni addotte a giustificazione di nuove e più stringenti iniziative legislative già trovano – o troverebbero - una loro possibile soluzione nella pletora di norme esistenti.
Insomma, siamo proprio sicuri che servano nuove disposizioni o non piuttosto una migliore e più rigorosa interpretazione e univoca applicazione di quelle che già ci sono? Non rischiamo altrimenti, nel guazzabuglio di norme che si sostituiscono o sovrappongono ad altre norme, di realizzare la profezia di Azzeccagarbugli allorquando, con un filo di malcelata soddisfazione, confidava al povero Renzo: "A saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente"?
Faccio un esempio.
E’ stata liquidata in maniera abbastanza sbrigativa la sentenza della Corte di Cassazione del dicembre 2015 secondo la quale il nuovo testo dell'art. 18 della legge n. 300/70 - come riformato dalla legge Fornero – deve ritenersi applicabile anche che nel settore dell’impiego pubblico: basta leggere le motivazioni della sentenza - le quali richiamano testualmente un passaggio della legge - per rendersi conto che, se la lingua italiana non è un'opinione, questo principio è stato chiaramente espresso dai giudici.
Eppure, se cercate i commenti alla sentenza, vedrete che, a seconda dei casi e delle tesi da sostenere, inerpicandosi in rinvii a questa o a quell'altra norma della selva giuridica italiana, si entra nel magnifico mondo, come lo chiamerebbe Vasco Rossi, del "C'è chi dice sì, c'è chi dice no": cosa che, su un tema delicato come questo, come su tanti altri ugualmente sensibili, è piuttosto allarmante.
In definitiva, nel dibattito tra - da una parte - la sacrosanta tutela del diritto di difesa da parte del lavoratore e, dall'altro, l'altrettanto sacrosanto diritto dei cittadini a vedere risparmiato rapidamente il costo del dipendente pubblico che non lavora, occorrerebbe trovare un sano e pragmatico equilibrio.
Che la sospensione dal lavoro del furbetto del cartellino avvenga in due giorni o in 10 non fa sostanzialmente alcuna differenza se poi, nella applicazione pratica delle norme, restano le stesse maglie larghe che non di rado hanno consentito, nell’impiego pubblico, reintegre a dir poco surreali: fissarsi sulle 48 ore anziché prevedere un termine più breve di quello esistente, ma più congruo di quello annunciato - 10 giorni, per esempio - diventa davvero solo una questione "di bandiera", un effetto speciale alla Star Wars che rischia però, alla fine, di non reggere a contestazioni di costituzionalità.
Migliorare le leggi è sempre utile. Aggiungere grida a grida no.
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