La riforma del Senato promossa dal governo ha certamente molti pregi a dispetto delle critiche, talvolta molto aspre, ricevute in questi mesi. Come sovente ribadito, alla luce dei punti deboli che sono emersi dal secondo dopoguerra ai giorni nostri, è certamente auspicabile che le istituzioni repubblicane siano finalmente modificate per renderle più efficienti. Su questa esigenza di rinnovamento vi è certamente ampia concordanza.
Il motore della riforma è il superamento del bicameralismo perfetto e ridondante: Camera e Senato svolgono attualmente identiche funzioni e non presentano, come sarebbe opportuno, una differenziazione nei poteri e nei compiti. Questo ha inevitabilmente portato alla moltiplicazione dei passaggi nel procedimento legislativo e a conseguenti rallentamenti. Il ben noto meccanismo della “navetta”, infatti, vincola l’entrata in vigore di un disegno di legge all’approvazione del medesimo testo da parte delle due assemblee. La riforma quindi si pone come obiettivo lo snellimento delle procedure e la specializzazione delle due assemblee in ambiti specifici, evitando contrasti e farraginosità tra i due organi dello Stato. Pertanto, ne guadagnerà il rendimento delle istituzioni in termini di efficienza.
Guardano alle maggiori democrazie europee, si nota come la cosiddetta Camera Alta abbia un ruolo specifico e distinto: basti pensare alla Camera dei Lords nel Regno Unito, al Bundesrat in Germania o al Sénat in Francia. In tutti i casi, la camera politica che sostiene, con la sua fiducia esplicita o implicita il governo, è quella Bassa (rispettivamente: House of Commons, Bundestag e Assemblée Nationale). Il nuovo percorso italiano sarebbe pertanto conforme a quello europeo. Che poi il bilancio dello Stato, come prevede la riforma, sia votato solo da quella Bassa, ne rafforza la prerogativa di indirizzo politico del Paese.
Rispetto ai punti cardine, vi sono altri aspetti importanti e i cui dettagli possono anche essere oggetto di modifica, senza per questo stravolgere la sostanza della riforma costituzionale.
Innanzi tutto, si può superare l’uniformità assoluta che vuole le Regioni rappresentate con lo stesso numero di Senatori e introdurre un principio di proporzionalità “moderata”. Questo significa attribuire qualche Senatore in più alle Regioni con un maggior numero di abitanti rispetto a quelle meno popolose. Un buon punto di approdo sarebbe quello di fissare un limite minimo di Senatori per ciascuna Regione e aggiungerne uno per ogni milione in più di abitanti. In questo modo, le Regioni più grandi avrebbero maggior peso, giustificato demograficamente, senza per questo svantaggiare in modo improprio le piccole. Se rimanesse l’impianto originale del ddl costituzionale, si ricordi comunque che negli Stati Uniti d’America, dal Wyoming alla California, tutti gli stessi sono rappresentati con uno stesso numero di Senatori (elettivi), ossia due.
Anche sul ruolo dei Sindaci si potrebbero limitare i cosiddetti cumuli di mandati. Un Sindaco di una grande città come Milano sarebbe anche a capo della relativa città metropolitana e anche Senatore in quanto, appunto, Sindaco del capoluogo di Regione. Tre incarichi appaiono davvero troppi in quanto il ruolo di primo cittadino è già di per sé alquanto impegnativo. Di lì, si potrebbe allora convergere su una più larga rappresentanza regionale, come indicato al punto precedente.
Se da un lato le Regioni avranno maggior peso, scenderà dall’altro quello dei Sindaci e del Presidente della Repubblica al quale spettano 21 nomine secondo il dettato attuale del progetto. La prospettiva è che per regionalizzare maggiormente il nuovo Senato delle autonomie, le nomine del Colle saranno ricondotte a 5 membri scelti sempre per altissimi meriti.
Il nodo più controverso è, infine, quello della (non)-elezione diretta dei Senatori. Il progetto di legge ha probabilmente posto questo paletto in base al principio per cui a una carica non elettiva non spettano ulteriori stipendi o emolumenti: insomma il no all’elezione diretta implica il no a compensi aggiuntivi, in nome dei tagli ai costi della politica. D’altra parte, anche in Germania sono i Lander a scegliere i loro rappresentanti per il Bundestag. Il progetto di Renzi quindi non è inedito, ma si poggia su un’esperienza certamente riuscita e funzionante, quella tedesca appunto. Tuttavia, una possibile via d’uscita già prospettata è quella di introdurre una lista collegata al candidato governatore: questo elenco conterrebbe i Senatori che saranno eletti contestualmente al candidato alla Presidenza di Regione al momento dell’elezione.
Aggiustamenti motivati quindi che, tuttavia, non dovranno portare all’incaglio di una riforma che finalmente promette, nel suo orizzonte complessivo, di dare maggiore respiro e funzionalità alle istituzioni repubblicane. L’occasione per il passo in avanti non va sprecata.
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