In questo paese il terzo settore è ormai una sorta di sottobosco confuso, oscuro, del quale tutti parlano ma che nessuno conosce. Nelquale pochissimi hanno il coraggio di addentrarsi. Un mondo fatto di fondazioni, di volontari, di associazioni non profit, di imprese sociali. Un mondo fatto di realtà ignote, almeno al grande pubblico.
Definirlo genericamente come “privato sociale” permette almeno di identificarne le caratteristiche ponderali. Ossia l’essere un insieme di enti privati e, al tempo stesso, sociali. In pratica, gruppi di cittadini e lavoratori coordinati allo scopo di svolgere una funzione pubblica che lo Stato, per una qualsiasi ragione, non riesce a onorare a dovere.
L’esigenza dell’esistenza di simili soggetti è in realtà insita nella definizione stessa di welfare State, di quel grande Stato che si adopera per essere fulcro di benessere. Questo perché il sistema pubblico, da solo, non può ad oggi essere sufficiente a provvedere ai bisogni di tutti. Bisogni che, è necessario sottolinearlo, si diversificano sempre più e aumentano sempre più, in relazione alle nuove realtà e necessità sociali.
Il volontariato in particolare diventa fondamentale nei momenti di crisi, laddove i governi tagliano le spese di assistenza ai malati e agli anziani, gli ammortizzatori per chi perde il lavoro e non può banalmente pagare indumenti e cibo, e via discorrendo. Ma anche le imprese sociali sono importantissime, nel crearsi attorno un proprio welfare; e le fondazioni, qualora diano la possibilità a chiunque di accedere ai propri fondi e programmi.
In parole povere, lo Stato moderno richiede alle proprie spalle un retroterra di gestione a livello micro della lotta all’emarginazione sociale.
Posta questa premessa è raccapricciante che ad oggi non esista una vera valorizzazione, in primis culturale, di questo fantomatico terzo settore. Che non esista un sistema integrato tra pubblico, privato non profit e profit. Che l’affidamento ai servizi sociali sia ancora considerato solo una pena sostitutiva per chi meriterebbe il carcere.
Proprio su questo tema Matteo Renzi lancia l’ennesima sfida. Un mese di tempo per discutere e poi al via in Cdm la riforma dell’intero meccanismo. Parole chiave: costruzione di un welfare nuovo, valorizzazione del potenziale di crescita e occupazione del privato sociale, predisposizione di strumenti di sostegno e incentivi per i comportamenti virtuosi di cittadini e imprese. Il tutto attraverso tre linee guida.
Per prima cosa l’introduzione di una leva per la difesa della patria, che in termini meno pomposi e nazionalistici è l’equivalente di un servizio civile universale, per 100 mila giovani. Un punto che, si spera, non sia concepito in stile pienamente italiano e non si traduca, quindi, in uno sterile assorbimento di disoccupazione.
Seconda leva è la valorizzazione del principio di sussidiarietà. Qualcosa che, in realtà, sarebbe pienamente perseguibile solo con una revisione del patto di stabilità interno. Per quanto sia infatti sacrosanta la partecipazione del privato alla lotta all’emarginazione sociale, questa non deve alleviare lo Stato dal suo contributo. E con vincoli quali quelli attuali un qualsiasi comune vede tutte le sue finanze prosciugarsi in clausole che disintegrano il suo potenziale d’azione nella collaborazione al welfare.
Ultima premiata leva è la valorizzazione della social enterprise, una tendenza che nel resto del mondo ha preso piede da almeno una decina d’anni. Come al solito, in questo caso anche perché l’interesse di certi governi era dirottato su un modo di fare impresa tutt’altro che sociale, l’Italia arriva in ritardo. Le prima convenzioni sulla Responsabilità sociale d’impresa risalgono agli anni ’90 e la legislazione di contorno già esiste. Quello che manca sono stimoli reali al mettere in campo simili progetti d’azienda, comunque meno remunerativi che non quelli tradizionali, nonché le condizioni per farlo. Insomma un altro fulcro che, in realtà, necessità di una analisi un po’ più sistematica rispetto a quella, seppur positiva, proposta dal governo.
Il problema di fondo, in realtà, è che il welfare non è un aspetto affrontabile per settori. Certo è utile elaborare proposte sul privato sociale, sulla riforma del mercato del lavoro, sugli sgravi contributivi. Tuttavia, tutti questi singoli percorsi dovrebbero integrarsi all’interno di un disegno di fondo, di una rivisitazione pressoché completa di un sistema di ammortizzatori sociali vecchio e non più adatto ai tempi. Il problema non è il terzo settore in sé. Il problema è come si vuole interpretare l’intero disegno di welfare. Ma chissà quando se ne potrà parlare, in questo paese.