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Durante la pandemia, anche quando eravamo in zona rossa, io ho continuato a lavorare, perché il mio settore, quello della ristorazione, non ha praticamente mai chiuso. Era una situazione davvero strana, dovevo attraversare vari Comuni e sulla Valassina vuota le uniche mie compagne di viaggio erano le ambulanze a sirene spiegate che facevano avanti indietro per provare a salvare delle vite.

Sono immagini che ho impresse nella mente e che difficilmente dimenticherò.

Così come, in quei momenti di incertezza e di solitudine, non dimenticherò gli scambi, le parole, le confidenze condivise con i rider che venivano a ritirare gli ordini da noi per consegnarli nelle case.

Parlando con loro ho sempre percepito quanto il mio lavoro, che non è sicuramente il massimo per il rispetto dei diritti dei lavoratori, sembrava quasi avere dei privilegi rispetto al loro. Avevo comunque garantita la malattia, la maternità e, con un po’ di difficoltà, persino le ferie. Loro non avevano, e non hanno, nulla di tutto ciò.

La loro vita è scandita da un’app, un algoritmo che ti dice dove, come e in quanto tempo completare la consegna. Se fai ritardo vieni penalizzato. Devi essere in strada, sempre, con qualsiasi meteo: pioggia, freddo, caldo o neve.

Sempre fuori dai ristoranti ad aspettare il tuo ordine, e poi via per non essere declassato dall’app delle diverse piattaforme.

Lo descrive abbastanza bene, con leggerezza ma con profondità, il film con Fabio De Luigi “E noi come stronzi rimanemmo a guardare”, che potete facilmente recuperare su Netflix. A qualcuno sembrerà paradossale ma ogni volta mi ricorda Michele e quella volta che sparì per una settimana. Pensavo avesse il Covid e invece era stato investito, aveva rotto il motorino, e non solo non aveva avuto il riconoscimento dell’infortunio, ma era stato declassato per non aver completato la consegna e per essere poi sparito per alcuni giorni.

Io non voglio rimanere tra quelli che stanno a guardare lo sgretolamento continuo dello Statuto dei Lavoratori nel nome di una innovazione che diventa solo arricchimento per pochi.

È stata questa la spinta, e va detto anche una certa rabbia che ho provato, a farmi pensare, quando sono stata eletta consigliera comunale, a cosa potevo fare per provare almeno a Monza a migliorare e rendere più umano un lavoro come quello dei rider. Per questo, insieme al collega Villy De Luca e ai sindacati, abbiamo scritto e portato in Consiglio Comunale una mozione che è stata poi votata all’unanimità lo scorso maggio per chiedere un impegno da parte del Comune per creare uno spazio dove queste persone possano formarsi, riposarsi, usufruire dei servizi igienici, senza essere esposti al freddo d’inverno e al caldo d’estate.

Un posto dove anche i sindacati potessero essere presenti, dove potessero esserci corsi di italiano e di sicurezza stradale e una mini-ciclofficina dove poter riparare all’occorrenza i loro mezzi. Un luogo da cui far nascere sfide, opportunità e lotte.

Sono orgogliosa che questa iniziativa oggi vada avanti con un accordo tra Comune e sindacati per individuare il luogo adatto. Terremo alta l’attenzione.

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