Dopo la rivisitazione dei Beatles in dialetto brianzolo, nel 2011, Renato Ornaghi ci riprova: il 12 novembre esce in libreria la sua ultima fatica: “Come’ on sass borlant (Like a Rolling Stone). The Rolling Stones in the Brianza County”.
Una rilettura in salsa brianzola delle più celebri canzoni del duo Jagger-Richards (più un tributo finale a Bob Dylan). Un libro (illustrato dal pittore lecchese Roberto Alquati) e due Cd (per un totale di 33 brani) dove le più celebri canzoni dei Rolling Stones sono state traslate in brianzolo.
Ho assistito alla presentazione in anteprima del suo lavoro presso “Il Libraccio” di Monza, un’occasione nella quale Ornaghi non si è risparmiato, omaggiando gli ospiti con un’ampia selezione di brani cantati dal vivo, inframmezzati da una conversazione guidata da Gianluca Alzati, scrittore, insegnante e musicista.
Perché cantare i Rolling Stones in brianzolo? Possiamo trovare delle affinità tra il gruppo londinese e il “mood” della Brianza? Possiamo conciliare passione per i Beatles e passione per i Rolling Stones?
Questi due gruppi per gli appassionati hanno sempre rappresentato due poli della musica, un po’ come Coppi e Bartali, gli indiani e i cow boy, l’Inter e il Milan ... Ornaghi, con un’escursione molto ardita nella filosofia hegeliana (e con molta ironia), ha sostenuto che se i Beatles sono la tesi, i Rolling Stones l’antitesi, la sintesi è data dalla “lengua”, intesa come “lengua mader” (lingua madre): il dialetto insubre-lombardo in questo caso.
Ornaghi ha evidenziato tre motivazioni di fondo per un lavoro di traduzione e, soprattutto di interpretazione dei Rolling Stones in dialetto.
La prima è di natura commemorativa, e prende spunto da una ricorrenza: 50 anni fa, il 12 luglio 1962, il gruppo rock teneva il suo primissimo concerto al Marquee Club di Londra.
Vi è poi una motivazione più sottile, legata all’esigenza di legarsi al presente: se i Beatles rappresentavano l’età dell’oro, gli anni ’60, la sua giovinezza, questo presente, così ricco di spread e di concetti che rendono la vita più complessa, è l’età della pietra, stone appunto.
E i Rolling Stones in questo senso si prestano molto bene a dipingere anche in Brianza, nelle traduzioni fatte, il nostro presente. Mick Jagger, Keith Richards & Co. in salsa brianzola rappresentano secondo Ornaghi la nostra terra presente con tenebrose tinte: una Brianza che non è più isola felice e che si sta rassegnando a diventare un vecchio armadio in legno, pieno di tanti bei ricordi, ma roso dai tarli della modernità.
Infine, c’è una motivazione di immagine. Il simbolo dei Rolling Stones è la lingua di fuori, e visto che quest’operazione ha come fine ultimo quello di parlare di lingua, cioè dimostrare che questa è una lingua ancora viva, quindi difenderne ad oltranza l’esistenza, vi è un invito: brianzoli tirate fuori la lingua (tirà foeura la lengua)!
Il messaggio: “Non vergognamoci di usare questa lingua, che è nostra ed è parte di un patrimonio, grazie alla quale riusciamo a dire cose che in altre lingue non riusciremmo a dire”.
Qui s’inserisce l’altro aspetto peculiare del lavoro di Ornaghi, che non è semplice traduzione, ma, sull’onda della melodia delle canzoni dei Rolling Stones, è anche lavoro propriamente d’autore, di traslazione, come accade con “I can’t get no satisfaction” trasformata in “I can vecc no se desfescen”: un invito a non buttare le cose vecchie, a conservare il proprio patrimonio identitario.
Pazienza se poi questi confini della Brianza sono così labili, se è così difficile stabilire dove inizia e dove finisce la Brianza, soprattutto ora che sta per sparire anche come provincia.
La Brianzashire non è propriamente una contea: forse è più una condizione dell’animo, un mood, appunto, che un luogo geografico preciso. Ciò che Ornaghi compie con le sue canzoni è una dichiarazione d’amore verso il suo dialetto, verso un idioma che rispecchia lo stile brianzolo: secco, rapido, un po’ aspro (come una pietra non levigata). Una lingua che in modo lento ma inesorabile sta sparendo.
Basteranno le canzoni a tenerla in vita? Soprattutto, ma qui il tema diventa da dibattito erudito, non è forse vero che qualunque lingua (e in particolare un dialetto) mantiene vitalità, si modifica, crea nuove parole, si contamina, solo se abita nella quotidianità delle persone che la parlano, che attraverso di essa trovano il modo di esprimere stati d’animo, emozioni, pensieri? Pensiamo solo a qual è oggi il rapporto tra l’italiano, il dialetto e l’inglesorum: chi è dialetto di chi?
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