La presentazione di Alessandro Campi ha cercato di chiarire i punti più problematici, evitando di discutere su tutti gli aspetti della riforma, e mostrandoci invece anche le possibile controriforme di cui la nostra università avrebbe bisogno e di cui i mezzi di informazione non parlano, contribuendo in tal modo a rafforzare la falsa immagine di un’opposizione solo distruttiva.
Le questioni più gravi riguardano sostanzialmente tre aspetti: la carriera precaria del ricercatore senza meccanismi che ne riconoscano il merito, la caduta dei finanziamenti ordinari e gli organi di governo della singola università.
Per quanto riguarda la carriera universitaria, la riforma prevede la scomparsa graduale della figura di ricercatore a tempo indeterminato che viene sostituita da diverse tipologie di contratto di ricercatore a tempo determinato, che possono durare da 6 a 8 anni prima che il ricercatore possa ottenere un contratto di tipo indeterminato come professore associato.
Questa situazione di precariato viene presentata come metodo per provare le capacità di un ricercatore, ma in realtà non sono stati creati sistemi validi per giudicarne il merito.
L’unico tipo di concorso nazionale riguarda il passaggio a professore associato: tuttavia è evidente che maglie troppo larghe non garantiscono un controllo sul merito, mentre maglie troppo strette porterebbero all’espulsione di molti ricercatori dal sistema universitario, ricercatori che tuttavia avevano già investito molti anni di lavoro nell’università.
Per il resto le nomine saranno gestite completamente dall’arbitrio dei professori ordinari, alla faccia della sbandierata e fasulla lotta alle baronie. Inoltre una volta raggiunto il ruolo di associato, non esiste nessun controllo del merito, e non vengono sanzionati quei comportamenti negativi di alcuni professori di cui a volte si sente parlare.
Da segnalare anche il problema che gli attuali ricercatori dopo 10 anni di collaborazione con un’università (compresi dottorato e tutti i tipi di contratti) non potranno diventare ricercatori nella stessa università.
Il secondo aspetto molto preoccupante della riforma è la conferma dei tagli del finanziamento ordinario delle università.
Questi tagli molto pesanti era stati previsti fin dalla Finanziaria 2008 e ora sono stati definitivamente confermati: in due anni il fondo sarà tagliato del 15%.
Se consideriamo che la maggior parte di questi soldi servono a pagare gli stipendi e quindi non possono essere ridotti, si capisce la grande difficoltà delle università nel funzionare in maniera adeguata con questi tagli. Il paragone con gli altri Paesi avanzati è disarmante: ci sono infatti Paesi come Francia e Germania che in tempo di crisi hanno aumentato i fondi destinati alle università invece che tagliargli, inoltre è ben noto che la percentuale del PIL destinato all’università è lo 0,8% in Italia, mentre la maggior parte dei Paesi europei viaggiano su valori compresi tra 1 e 1.5%, Canada e Stati Uniti sono addirittura al 3%. Per non parlare poi del netto divario di stipendi tra ricercatori italiani e europei.
Il terzo aspetto molto critico riguarda la modifica degli organi di gestione dell’università: il consiglio di amministrazione e il senato accademico.
Oggi infatti il Senato accademico è responsabile delle scelte didattiche e di ricerca, mentre il consiglio di amministrazione si occupa del bilancio economico, dopo la riforma il Senato viene reso consultivo e tutte le decisioni sono responsabilità del Cda. Il Cda stesso inoltre è sottoposto a pesanti modifiche: il Rettore può infatti nominare numerosi consiglieri anche provenienti da enti esterni o privati, cosa che gli consentirebbe facilmente il controllo del consiglio di amministrazione. I privati che entrano non avranno nessun obbligo di investire denaro nell’università.
Se consideriamo l’intera riforma emerge con evidenza il progetto di rendere la vita difficile all’università pubblica, spianando in tal modo la strada per un maggiore controllo da parte dei privati. I danni a lungo termine causeranno all’Italia una perdita di innovazione e competitività delle nostre imprese rispetto al resto del mondo.
Dopo aver mostrato con grande chiarezza questi gravissimi punti della riforma, il prof Campi ci ha spiegato quali sono invece le proposte di controriforma elaborate sia dai ricercatori stessi, sia dal Pd.
I ricercatori propongono ad esempio che si passi subito dopo il dottorato di ricerca ad un contratto di ricerca senza obblighi didattici a tempo determinato, in tal modo si consentirebbe ai migliori ricercatori di poter concentrarsi sulla ricerca, visto che è noto che i migliori risultati si ottengono in genere in età non avanzata.
Dopo questo contratto seguirebbe già il ruolo di ricercatore con obblighi di docenza, in cui ci sarebbe un controllo dei risultati conseguiti in base ad un programma di risultati da ottenere deciso fin dall’inizio (sistema chiamato “tenure track”). Una volta superato questo controllo viene confermato il contratto.
Le progressioni di carriera non saranno più automatiche ma regolate sempre da controlli sul merito.
Il partito democratico ha invece elaborato una proposta con diversi punti: per prima cosa si propone di ringiovanire la classe docente aumentando i concorsi per regolarizzare i ricercatori precari, una riduzione del divario di stipendio tra ricercatore e precari, con aumenti di stipendi legati al merito.
Altre proposte sono: potenziamento delle residenze universitarie per favorire la mobilità, aumentare i finanziamenti all’università in 10 anni fino a raggiungere l’1,3% del PIL, definire un piano strategico per l’università regione per regione, federare gli atenei in modo da aiutare quelli in difficoltà economiche e razionalizzare le spese, creare un’agenzia nazionale per la valutazione delle università, favorire l’arrivo in Italia di “visiting professor” dall’estero, valorizzare maggiormente il dottorato di ricerca.
Ovviamente la serata non ha consentito di approfondire queste proposte, comunque l’impressione è che il Pd ha cominciato finalmente a proporre cose interessanti, che si spera diventeranno la base di un futuro programma da presentare agli elettori.
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