Correva l’anno 1989. I Pink Floyd di Wish you were here, Comfortably numb e Another brick in the wall occupavano il posto d’onore nei negozi di dischi. Tutti avevano uno stereo, tutti avevano almeno uno di quei vinili. Mentre David Gilmour &company giravano il mondo facendo letteralmente impazzire le masse.
Più popolari della regina d’Inghilterra, più rivoluzionari del Che. Un vero fenomeno globale affermato e in grado di vantare un’esperienza ormai pluridecennale. Solo palchi d’eccezione: ville, stadi, piazze, parchi.
Parchi? Secondo qualcuno, gli alberi non ascoltano buona musica. Nonostante tutto, il 20 maggio 1989 è proprio il Parco di Monza ad accogliere la rock band inglese. Direttamente dall’Olimpo, dritta fino al cuore della città e della sua storia. Ricordi. Un successo senza precedenti. Ma anche, purtroppo, lacrime – una devastazione senza precedenti. E la conseguente indignazione pubblica, genesi di un binomio che ancora oggi marchia a fuoco la vita cittadina: i concerti fanno male al parco. L’incompetenza degli organizzatori, pochi, per incenerire le possibilità degli abitanti. Svago, divertimento, visibilità, utile e tutti i ritorni che si potevano avere. Tutti in cenere. Peggio degli alberi. Non è una partita da poco.
Tuttavia, per quanto importante, si tratta di una questione che non ha mai visto animarsi una dialettica. Il dibattito tace. Non posso vedere, non posso sentire, non posso parlare. Non posso neanche cercare una soluzione che tuteli il verde e offra possibilità in più ai monzesi. La mediazione muore per un semplice schema assodato e incontestabile: i concerti non vanno bene, punto, è così.
Un’idea che, però, vale solo qui. Interessante.
È paradossale infatti come questo terrore sia una prerogativa prima di tutto italiana, ma ancora di più strettamente monzese. Ci sono luoghi dove tutto questo non succede. Senza bisogno di parlare di Inghilterra, Germania, Francia o Olanda, dove i più grandi festival del mondo vengono allestiti tranquillamente nei suggestivi scenari dei parchi urbani. Basta guardarsi in casa, nel Belpaese, e aprire un attimo gli occhi. Un esempio tra i tanti: Villa Manin, Passariano di Codroipo, Udine. E una dimora nobiliare del 1500 è decisamente più sensibile di un parco nei confronti dell’inciviltà della gente. Le opzioni sono due. O i friulani e i loro ospiti hanno raggiunto un livello di civiltà superiore, o il binomio monzese ha un che di errato. Perché il parco di una villa può reggere l’impatto dei grandi nomi – Bon Jovi, Iron Maiden – e invece in quel di Monza gli alberi sono tanto sensibili?
Oltretutto un evento comporta notevoli opportunità e vantaggi. Di natura culturale in primis – la musica è una lingua universale al massimo grado; ma anche turistica, ludica, nonché economica. La pretesa rigorosamente green di sigillare il parco rappresenta una limitazione alle possibilità di monzesi e non. Tanto più essendo basata su una valutazione alquanto grossolana. Ci sono infatti intere aree che sarebbero un teatro perfetto per concerti ma anche per mostre, serate, spettacoli. A Monza c’è un patrimonio latente di proporzioni immense che si vuole continuare a nascondere e non un reale rischio ambientale. Quel che ci si ostina a fare è negare ad altri la possibilità di riuscire laddove qualcuno, in passato, ha fallito.
Ora, se questa politica è una scelta dei cittadini e non solo di pochi è più che rispettabile. Ma se in nome delle pretese di qualcuno ci perde la collettività è il momento di cambiare le carte.