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enrico lettaPubblichiamo l'intervista a Enrico Letta, nuovo segretario del Partito Democratico, condotta da il quotidiano Il Tirreno.

A un politico che torna dopo sette anni viene subito da chiedere cosa abbia fatto nel frattempo? Di sicuro non è «andato a letto presto» come Robert De Niro in “C’era una volta in America”.

«Certo che no, sono andato a dirigere la Scuola di Affari internazionali dell’Università Sciences Po di Parigi. Ma ho continuato a seguire le vicende italiane. Peraltro ho ricominciato a fare la campagna elettorale nello scorso settembre proprio a casa mia in Toscana. Ho ritenuto importante dare il mio contributo quando si è avvertito il pericolo che, alle Regionali, la Toscana potesse scegliere la leghista Susanna Ceccardi, una che veniva dal mio territorio. Io sono cresciuto fra Pisa e San Giuliano, lei è di Cascina. È stato un piccolo contributo, il mio, ma in politica conta anche la somma di piccoli impegni».

Nel frattempo era stato invisibile.

«Dall’estero le cose si vedono meglio. Questi sette anni passati insieme con i giovani di tutto il mondo mi hanno aperto gli occhi su alcune necessità. Alla fine posso sintetizzarle con tre titoli: i giovani, la questione femminile, la sostenibilità dello sviluppo».

Cominciamo dai giovani. Ha subito giocato la carta del voto ai sedicenni.

«Il mio partito vuole parlare giovane. Anche il mio staff sarà formato da quattro studenti universitari che mi porto dietro dalla scuola parigina, sono cresciuti con me e io sono cresciuto con loro. È uno scambio. Ho capito, stando con loro, che il voto ai sedicenni è una dimostrazione di fiducia, una mano tesa».

E passiamo alla parità di genere. Il Pd veniva dalla burrasca della scelta dei ministri del governo Draghi: tre su tre, tutti uomini.

«Appunto, io non posso immaginare che nel nostro partito ci siano solo volti maschili al vertice. Non possiamo essere quelli con uomini al comando e donne vice, quando va bene. Servono leadership mischiate, specie adesso che in Europa ci sono Angela Merkel, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde. Per me questo è un passaggio chiave».

Poi la sostenibilità, che non può essere solo un’enunciazione di principio.

«Assolutamente. Il futuro è di chi non soltanto assume la sfida della sostenibilità ecologica e non come una moda che cambia ma la sostiene veramente con atti concreti».

Dunque siamo alla politica che deve guidare il cambiamento e non subirlo. Una politica che non guarda ai sondaggi del giorno dopo per assecondare i desideri e guadagnare consensi senza aver un progetto.

«Torno con una grande voglia di politica, con un discorso di politica a tutto tondo in linea con quanto Nicola Zingaretti ha fatto finora. La politica non può essere fatta solo di tweet e messaggi ammiccanti. Nel mondo del post pandemia, la politica è tornata sempre più al centro. È più necessaria di prima, e deve avere uno sguardo lungo. Non quello del giorno per giorno. Questo serve anche per far finire l’inverno demografico nel nostro Paese. Dunque voto ai 16 enni, ius soli. Avanti senza indugio».

In sei giorni molta carne al fuoco, grande aspettativa. La cosa la spaventa un po’ o le dà conforto?

«Guardi, mi è capitato già una volta di essere al centro dell’attenzione quando sono diventato presidente del Consiglio nel 2013. Vedo però che c’è più attesa e sostegno adesso. E allora ero a capo di un governo, non di un partito».

Nel frattempo è cambiato il quadro politico, il momento è molto particolare.

«Certo, ma il messaggio lanciato è stato colto. E il sostegno aiuta non poco».

Lei ha subito rivolto un pensiero «ai centomila morti e al mezzo milione di italiani che hanno perso il lavoro, a loro noi guardiamo cercando le migliori soluzioni per il loro futuro». Come dare concretezza a queste parole?

«La migliore risposta è arrivata venerdì con il Decreto Sostegni del governo Draghi. Perché interviene sulla protezione del lavoro per chi lo ha perso e per chi lo sta perdendo. Ora dobbiamo fare in modo che non ci vogliano mesi prima che chi deve averli veda i 2.400 euro, questo è un passaggio fondamentale».

E poi?

«Il resto lo farà la nostra capacità di uscire dalla pandemia il più presto possibile. E possiamo farlo solo attraverso una campagna di vaccinazioni che raggiunga tutti il prima possibile».

Occorre creare prima possibile le condizioni per far ripartire il Paese.

«Le condizioni per la ripresa ci sono tutte. Penso ad esempio a città come la mia, Pisa, che vivono di turismo e di università. I sostegni sono fondamentali per resistere fino a quando torneranno i visitatori e le università saranno a pieno regime. E lo stesso vale per altre situazioni simili o basate su altri flussi ora bloccati».

Il governo ha dato la risposta giusta?

«Sì, il presidente è stato bravissimo nel limitare al massimo le richieste della Lega in fatto di condoni. Draghi e il governo al completo hanno saputo rispondere bene a un segretario di partito che ha tentato di prendere in ostaggio un intero Consiglio dei ministri. Questo anche grazie a un Pd unito che è più forte di prima. Il Pd diviso e debole non ce l’avrebbe fatta, questo è il primo frutto del nostro cambiamento».

Dunque, rispetto al Pd che si era arroccato attorno a Conte, ora questo Pd sente il nuovo governo come suo.

«Senza alcun dubbio. Non siamo noi a dover spiegare il sostegno a Draghi, semmai è la Lega che deve spiegare il suo. La Lega ha cambiato posizione sull’Europa, con una riunione fra Salvini e Giorgetti in un bar davanti a un caffè. Il Pd discute, anche animatamente. La Lega oggi è una caricatura della politica. In un altro bar fra qualche mese, davanti a un altro caffè, potrebbe tornare anche il Salvini di prima».

A un certo punto, durante il suo discorso di insediamento, ha citato una frase di papa Francesco che vorrebbe un mondo dove ci sia un abbraccio fra giovani e anziani e dove nessuno si salva da solo. Parole bellissime, poi però bisogna metterle in pratica.

«Abbiamo già cominciato. Con scelte rigorose per proteggere gli anziani, capendo però che non si possono dimenticare i ragazzi. Mi auguro che la chiusura delle scuole possa essere solo temporanea».

Dipenderà anche dalle scelte che faranno le Regioni.

«Certo, e vorrei fare i complimenti all’assessora regionale all’Istruzione, Alessandra Nardini. La mia regione è una fra quelle che ha saputo tenere aperte le scuole più di altre, permettendo lezioni in presenza».

Per i ragazzi la Didattica a distanza rischia di diventare alienante.

«Sono cresciuto con gli insegnamenti dell’attuale vescovo di Livorno, monsignor Simone Giusti, quando ero all’Azione cattolica di Pisa. Lui ci ha sempre detto che bisogna prestare la massima attenzione ai quindicenni, sedicenni, l’età chiave per una buona crescita è quella fra i 14 e 16 anni. Noi non li stiamo seguendo abbastanza».

Torniamo in casa Pd. Pochi giorni di segreteria e prime grane, appena dall’altra parte dell’Appennino. A Bologna due assessori dell’attuale giunta comunale stanno litigando per la successione al sindaco Merola.

«Bisogna imparare che ci sono delle regole, che le scelte si fanno votando. Senza che ogni volta ci sia una guerra tribale».

Ci sarà anche per la scelta dei capogruppo alla Camera e al Senato?

«Questa settimana i gruppi ne discuteranno. Quando sono arrivato ho detto che c’è un problema enorme di presenza femminile nel nostro partito: tre ministri sono uomini, io sono un uomo. Penso che per forza di cose due capogruppo debbano essere due donne. Non possiamo fare una foto di gruppo del vertice del partito e presentare volti di soli maschi. In Europa sono cose che può fare Viktor Orbán in Ungheria o Mateusz Morawiecki in Polonia».

Quindi per Graziano Delrio e per Andrea Marcucci, i due capogruppo uscenti, il destino è segnato.

«Non è una bocciatura. Sono fra le figure di maggiore rilievo che abbiamo, hanno lavorato benissimo e potranno tornare utilissimi in altri ruoli. Siamo intorno alla metà della legislatura ed è giusto lasciare spazio a due donne».

Le sceglierà lei?

«Assolutamente no. Ai gruppi suggerisco che votino e scelgano senza drammi. Non le indico io le capogruppo, le scelgano. Tutti mi hanno votato, quindi non c’è maggioranza e minoranza. La mia esperienza lontano dal partito per sette anni mi suggerisce che oggi esiste una sensibilità per la quale non è immaginabile il maschilismo».

E dunque siamo al partito plurale. Anche qui non è proprio semplice, in un’epoca in cui tutti quanti sono andati verso partiti molto personalistici.

«Cominciamo dalla scelta di due vicesegretari, Irene Tinagli e Peppe Provenzano. Una è empolese, l’altro si è formato alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa. Li ho scelti fuori da ogni negoziato correntizio, sono due persone che incarnano due profili diversi fra loro. Appunto un partito plurale. Tanti potranno riconoscersi. Oggi saranno in tv dall’Annunziata, e chiunque potrà apprezzare la loro capacità di azione».

Anche la segreteria snella, quattro donne e quattro uomini, va in questa direzione.

«Fino a oggi troppi dirigenti, todos caballeros, poi non si decide mai».

Ci sono anche personalità esterne, uno – Mauro Berruto, ex ct azzurro del volley – non è neanche iscritto al Pd.

«Ho scelto Mauro sia perché lo sport lo abbiamo abbandonato e dimenticato. Ma anche perché il coach è bravo a raccontare la nostra idea di partito. Lo farò girare per circoli a spiegare cosa vogliamo fare».

L’ho ascoltato a RadioRai parlare del legame fra la sua disciplina sportiva e la sua idea di politica. Ha detto che nella pallavolo il passaggio al compagno non solo è fondamentale, viene reso obbligatorio dal regolamento.

«Vero, e aggiungo che anche negli sport di quadra, non solo nel volley c’è il concetto di cambio. Si sta in campo, si torna in panchina, poi si rientra. Vuol dire che non è obbligatorio stare sempre in prima linea, si può dare un contributo concreto in altri ruoli».

Lei a un certo punto era finito in tribuna, altro che panchina.

«Peggio, non era neanche tribuna. Ero su uno di quei terrazzi dei palazzi vicini allo stadio. Io guardavo la partita da lì».

Siamo oltre il partito di prossimità.

«È da lì che si riparte. La questione del territorio è importante, noi lo abbiamo perso. Aver perso il governo di centri importanti, ci sta facendo capire che è necessario riprendere il rapporto con il territorio, un rapporto filosofico. Io ho cominciato la mia attività a Pisa e il primo comizio l’ho fatto a Monteverdi Marittimo, 500 abitanti circa. Per questo sto molto attento a questo aspetto».

In un mondo sempre più globalizzato…

«Le scelte amministrative sono importanti. In questi sette anni ho maturato anche un impegno di volontariato, per i comuni terremotati della Marche, lavorando intorno ai centri di telemedicina, per consentire agli anziani di avere servizi che altrimenti non potrebbero avere. Oggi l’innovazione è importante e permette di ridurre le distanze»

In un momento così dove siamo tutti lontani…

«Guardi, domenica questa cosa l’ho tagliata dal discorso che ho fatto per non andare troppo lungo ma approfitto di questa intervista per ragionare intorno al mondo del post pandemia. Un mondo nel quale lo smart working e la rotazione fra casa, ufficio e ufficio satellite, daranno grandi opportunità per i centri minori. Per la Toscana, per l’Emilia, per tutte quelle realtà con tanti centri più piccoli sarà una grande occasione. Sarà l’occasione per decongestionare strade e mezzi di trasporto. È il concetto di sostenibilità legato alla logica di prossimità».

Proviamo ad andare sul concreto. Mi dica una cosa molto “rivoluzionaria” che immagina fra cinque o dieci anni.

«Faccio un esempio per la mia Toscana ma il principio vale per ogni altra parte del Paese. Penso di poter vedere realizzato un progetto già presente in molte altre parti del mondo: una metropolitana leggera che colleghi Pisa e Firenze in 25 minuti. Un’infrastruttura che rafforza la Costa, toglie le auto e anche un po’ di camion dalla strada, connette la Toscana costiera alla dorsale dell’Alta velocità. E chiude anche la disputa dei due aeroporti. Nel resto del mondo funziona così. Si atterra a Pisa e si va a Firenze in 25 minuti, e si possono usare i due scali in modo integrato. Si arriva a Pisa e si riparte da Firenze e viceversa».

Torniamo al Pd. Ha detto senza giri di parole di voler «fare un partito che abbia le porte aperte. L’apertura sarà il mio motto: spalanchiamo le porte del partito». Non sarà semplice.

«Vuol dire che ho trovato un partito delle porte chiuse, con troppi dirigenti che volevano meno gente dentro per avere più posto da dividere. Ho trovato un partito con molte sedi commissariate. Il commissariamento è sintomo di malattia, bisogna guarire».

Da dove si comincia?

«Dalle sezioni, dai circoli. Ho fatto avere un vademecum con 20 punti per aprire un dibattito, per far tornare indietro suggerimenti riflessioni. E poi lanceremo le Agorà democratiche, in estate e in autunno, disegneremo il partito del futuro. La forma partito è quella dove si dibatte. Non il caffè al bar fra Salvini e Giorgetti per cambiare la linea. Il nostro non deve essere un partito dei leader. Deve attirare nuove persone».

Lo sa, vero, che in molte città storicamente di sinistra il Pd è finito all’opposizione proprio per non essere stato capace di questo?

«Specie in Toscana, andare all’opposizione in un po’ di città ci ha fatto solo bene. Troppe divisioni, troppi atteggiamenti personalistici dentro il partito. Dobbiamo chiudere questa epoca. I circoli troppo spesso sono stati usati più per costruire carriere personali che per creare dibattiti».

Ha dei segnali in questo senso?

«In pochi giorni abbiamo decuplicato le tessere on line. Lunedì 22 marzo sarò in video con una tv locale di Como dove darò il benvenuto a un signore di 87 anni, Giuseppe Guzzetti, ex presidente di Fondazione Cariplo, ha annunciato che prenderà la tessera. Un bel segnale».

E nello scenario europeo?

«Vogliamo essere protagonisti nella scelta del futuro della sinistra europea, quella è la nostra dimensione. La sinistra è in crisi in Francia e Germania e va bene in Portogallo, Spagna e Scandinavia. Vogliamo esserci anche noi».

Con le alleanze in casa come la mettiamo?

«Se si va da soli si perde. Vogliamo unire la sinistra e lavorare a un discorso comune con i Cinque stelle. Ma senza veti. Battere le destre sarà difficilissimo, non possiamo dividerci».

Matteo Renzi (Italia Viva) dice no ai Cinque stelle.

«Atteggiamento sbagliato. Non è il nostro. Noi vogliamo aprire alleanze. Non mettiamo veti, non ne vogliamo».

Fra le sue frasi una fra quelle che ha colpito di più è stata: Non c’è niente di più bello che imparare».

«Lo dico per esperienza vissuta. Sono sempre andato di corsa, rendendomi conto che alla fine non hai né la testa né il cuore per imparare. Otto anni fa sono arrivato a Palazzo Chigi sull’onda di 15 anni ininterrotti di politica. Oggi, alla guida del Pd, ci arrivo dopo sette trascorsi a imparare».

E, sul piano dell’azione politica, questa pandemia cosa le sta facendo mancare di più?

«Mi manca il contatto diretto. Ricordo quando Pierluigi Bersani era segretario e io vice e siamo andati a visitare tutte le realtà imprenditoriali italiane. Mi manca ripetere questa esperienza. Voglio interpretare il mio ruolo, non otto ore al giorno di presenza in tv o sui canali social. Ma riprendere a girare. In tutte le regioni, ovviamente. Faccio un esempio per la mia terra: andare dai conciari, al porto di Livorno per capire cosa sta succedendo con i coreani. Poi al Distretto della scienza e della vita per capire come la Toscana può diventare punto di riferimento mondiale».

In questi giorni ha ricevuto numerosi messaggi. Scegliamone due, uno del proprio campo e uno che arriva dal campo avverso.

«Uno che mi ha favorevolmente colpito è stato quello di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia. Quello che ci siamo detti ovviamente resta fra noi, però posso dire che è stata una telefonata molto corretta come deve essere fra maggioranza e opposizione. Le istituzioni si riformano insieme, importante avere un bel rapporto».

E fra quelli degli amici?

«Un compagno di una vecchia sezione del Pci mi ha detto: “Ricordati che ti chiami Enrico”. Un messaggio pieno di affetto e che mi riempie di responsabilità. Per uno come me che non viene da quella storia, vale doppio. E non solo perché ho avuto sempre un gran rispetto per Enrico Berlinguer».

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