Parto da me, dichiarando subito la mia impreparazione a rispondere correttamente a questa domanda. Sono giorni - per non dire settimane, mesi, anni - che leggiamo o ascoltiamo i termini sunniti e sciiti, eppure sono convinta che ne sappiamo ben poco. E allora perché, per riaffermare l’adesione ai valori della nostra cultura - e impostare un ragionamento sul tema che non sia frutto di approssimazione, pregiudizi, sentito dire - non fare ricorso al metodo scientifico, uno dei suoi principi cardine? Conoscere per capire e capire per provare a fare qualche riflessione: mi pare sia questo l’approccio migliore, anzi, per dirla meglio, l’unico utile.
Senza nessuna pretesa di completezza – rinvio, alla fine, a qualche contributo per approfondire l’argomento – si può cominciare col dire, per prima cosa, che i sunniti costituiscono tra l'80 e l’85% per cento della popolazione complessiva di musulmani nel mondo.
Gli sciiti costituiscono il restante 10-15%: lo sciismo è diffuso in Iran – dove costituisce la maggioranza della popolazione - in Iraq – dove rappresenta circa un terzo della popolazione musulmana - in Pakistan (20%), in Arabia Saudita (15%), in Bahrein (70%), in Libano (27%), in Azerbaigian (85%), in Yemen (50%), in Siria e in Turchia, e in altre parti del mondo.
Sunniti e Sciiti condividono i princìpi fondamentali dell'Islam, i cosiddetti “i cinque pilastri”: l'accettazione di Allah come unico Dio e di Maometto come suo ultimo profeta; le cinque preghiere quotidiane obbligatorie; la donazione del 2.5 % dello stipendio annuale ai poveri; il digiuno nel mese di Ramadan; il pellegrinaggio a La Mecca almeno una volta nella vita.
Dove e quando nasce quindi la scissione? Risale agli albori stessi dell’Islam quando, alla morte di Maometto, nel 632 d.C., si aprì un dibattito sulla successione del Profeta: questo ha successivamente condotto a una distinzione su riti, legge da applicare, teologia e anche sul modo di organizzare la società.
I futuri sunniti sostenevano che il nuovo leader della comunità musulmana, ovvero il legittimo califfo, dovesse essere Abu Bakr, compagno di Maometto e rinomato studioso islamico: che il leader, in definitiva, dovesse essere scelto dalla comunità.
Il termine sunniti deriva da “sunna” – in arabo pratica, tradizione - ossia i detti e fatti di Maometto secondo quanto raccontato dai suoi compagni e che furono scelti, in un certo senso canonizzati, tra le migliaia esistenti e sulla base di criteri di affidabilità, da ricercatori e storici dei secoli XI e XII. I sunniti accettano solo detti riferiti esclusivamente dal Profeta e non dei suoi discendenti.
I futuri sciiti, invece, sostenevano che il diritto di succedere a Maometto fosse riservato ai suoi diretti discendenti e che quindi, in assenza di figli maschi del Profeta, lo stesso spettasse a Ali, suo cugino e genero, e ai successori di questo. Diversamente dai sunniti, gli sciiti accettano anche detti riferiti ai discendenti di Maometto.
Per quel che riguarda il rapporto tra religione e politica, secondo i sunniti stato e religione non sono separabili; gli sciiti hanno invece una tradizione di indipendenza dei leader religiosi rispetto a quelli politici anche se lo stato è comunque soggetto al clero, che monitora e decide se un governante è degno di governare e se rispetta le linee guida islamiche.
Sono queste differenze che stanno, da sole, alla base di un conflitto che è innanzitutto interno all’Islam? Ovviamente no. Così come per le guerre di religione nel mondo cristiano - che hanno scontato pesantissimi tributi di sangue, si pensi agli scismi d’Oriente, alla riforma protestante, allo scisma inglese - del pari anche nell’universo dell’Islam – nel quale, per inciso, le stesse famiglie degli sciiti e dei sunniti presentano ulteriori articolazioni – i conflitti si spiegano con precisi motivi politici e storici.
Jon B. Alterman, direttore del prestigioso Center for Strategic and International Studies di Washington, ha recentemente scritto: “Il vero conflitto tra sciiti e sunniti in Medio Oriente non è di natura religiosa, ma politica. La religione, a volte, è una continuazione della politica con altri mezzi. Le crescenti tensioni tra sciiti e sunniti in Medio Oriente ne danno ampiamente prova”.
E ha spiegato: “E’ stata la politica a provocare la scissione tra sciiti e sunniti, non la teologia. Nel corso della storia, le popolazioni hanno oscillato tra l’adesione all’Islam sunnita e a quello sciita”. Ha ricordato come il principale stato sciita al mondo, l’Iran, sia stato sunnita fino al 1501, allorquando lo Scià Ismail I proclamò l'Islam sciita religione di Stato della Persia per distinguere i suoi domini da quelli dell’Impero Ottomano, sede del califfato sunnita e detentore di un’ingente forza militare e politica.
Alterman, dopo avere sottolineato i difficili equilibri tra un Iran sciita di 70 milioni di abitanti - con un grande esercito e una storia millenaria, ricca tradizione di storia, arte, letteratura e cultura - contrapposto a paesi prevalentemente sunniti come l ’Iraq, con 26 milioni, e l’Arabia Saudita, con circa 22 milioni – ha concluso: “La Gran Bretagna ha mediato nella rivalità arabo-iraniana per 150 anni, a partire dai primi anni del XIX° secolo.
In seguito, dalla metà del XX° secolo, gli Stati Uniti hanno gestito il conflitto sostenendo entrambe le parti, con la strategia dei “Twin Pillars” (Pilastri Gemelli) perseguita nel Golfo, e che ha portato gli Usa ad avvicinarsi sia allo Scià iraniano che all’Arabia Saudita, facendo affidamento su entrambi come baluardo contro l’influenza sovietica nell’area. La rivoluzione iraniana del 1979 sfrattò gli Stati Uniti come arbitro: gli Stati arabi si schierarono presto con l’Iraq di Saddam Hussein, come un necessario bilanciamento contro l’influenza iraniana nel Golfo, e si gettarono ancor più strettamente nell’abbraccio americano”.
“Venuto meno l’Iraq” conclude Alterman “molti stati dell’area mediorientale hanno visto l’Iran pericolosamente rafforzato nella sua corsa al dominio sulla regione, un Iran che, da parte sua, non ha omesso di ingerirsi nella politica locale degli stati arabi limitrofi per rafforzare le popolazioni sciite socialmente ed economicamente più emarginate, più povere e meno istruite”.
Secondo lo studioso americano, il conflitto, per quanto ammantato di retorica religiosa strumentalizzata a fini non confessionali, è fondamentalmente una lotta di natura politica per la conquista del potere e del denaro.
Ed è precisamente lì che occorrerebbe concentrarsi.
Di seguito due documenti dell'ISPI - Istituto nazionale per le politiche internzionale - per approfondire l'argomento:
ISPI Dossier -Un anno di califfato: Medio oriente a geometria variabileÂ
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