Ha compiuto un anno e conta 664 iscritti l’Associazione “Diritti insieme”, nata su iniziativa della Camera del Lavoro di Monza e Brianza per difendere e promuovere i diritti dei migranti. Ne abbiamo parlato con la sua presidente, Luciana Spagnoli.
Un’intervista che è stata l’occasione per riflettere insieme sulla realtà dell’immigrazione nel nostro territorio e sul ruolo del sindacato nella tutela e promozione della cittadinanza e del lavoro.
Perché un’Associazione come questa? A quali domande risponde?
L’associazione è nata il 1° gennaio 2012, ma non nasce dal nulla: trae origine dall’esperienza dell’Ufficio immigrazione, presente in Cgil da molti anni e punto d’incontro con i migranti sui problemi legati principalmente al permesso di soggiorno e alla possibilità di rimanere in Italia. In realtà, non ci limitavamo a portare avanti queste pratiche: i migranti si rivolgevano a noi perché eravamo un punto di riferimento per i mille problemi che una persona può avere, dall’affitto, alle multe, alle condanne per le piccole infrazioni ... Mancando riferimenti forti nel territorio, nelle istituzioni, i migranti tendono a individuare un luogo, dove trovano soprattutto ascolto. È proprio l’ascolto ciò di cui hanno molto bisogno, anche se vi sono situazioni rispetto alle quali noi stessi siamo impotenti, loro trovano un luogo dove esprimere i loro problemi veri, a volte anche personali.
Vi è una parte di lavoro “istituzionale”, che affrontiamo mettendoci in relazione con la Questura o con la Prefettura.
Vi è poi un’altra parte del nostro impegno che possiamo chiamare “attenzione” e ascolto. Qui sta il motivo per cui si rivolgono a noi, mentre altrove sono visti come numeri ad uno sportello qualsiasi. Vi sono pochi luoghi dove possono interagire alla pari con gli italiani.
Qui possono e qui raccontano le loro disgrazie e le loro gioie e costruiscono relazioni che non sono legate al singolo problema da risolvere. Questo è un punto dove possono essere se stessi, senza paura. Perché hanno sempre una gran paura: paura ad andare per la strada, anche se hanno il permesso di soggiorno. Se vedono una macchina della polizia, nascondersi è un riflesso condizionato. Sul lavoro hanno paura, perché temono di perderlo.
Questo invece è un luogo dove vengono tranquilli: c’è un rapporto di fiducia. La persona che si rivolge a noi sa che quello che dice qui “non sarà usato contro di lei”.
Quali sono le nazionalità più presenti all’interno dell’Associazione?
Ho iniziato a lavorare con la comunità pachistana, perché sono stati i primi che ho avvicinato, poi ci sono i bengalesi (qui a Monza sono tanti) e poi gli immigrati provenienti dall’Africa Sub sahariana. Un’utenza al 95% maschile. Le donne sono davvero poche: tendono a rivolgersi più alla parrocchia, o al Comune, è difficile che vengano qua. Da noi (diversamente che alla Cisl) arrivano non tanto le famiglie, quanto quelli che non hanno un contratto di lavoro o che hanno condizioni complessive molto precarie.
Quali sono gli obiettivi dell’Associazione e quale ruolo svolge nel contesto più ampio della città e del mondo del lavoro?
Essendo un’associazione della Cgil e nella Cgil, attraverso di essa si può rendere molto più facile il contatto con le categorie. Se una persona si rivolge a me per un problema di lavoro, io la indirizzo alla categoria interessata.
Questo induce un’idea un po’ più concreta di cos’è un’organizzazione sindacale: l’immigrato vede che io non mi occupo di tutto, ma di una certa fascia di problemi, mentre per altri sono competenti le categorie, o il Caaf se si tratta di fisco, o il Sunia per le questioni della casa. I nostri associati in questo modo iniziano a vivere la Camera del Lavoro come un punto dove si possono avere molte e diverse risposte, non solo quella strettamente legata al soggiorno.
Iniziano a costruirsi l’idea di un’organizzazione, con tante specificità, e questa – non più la mia persona – diventa il loro riferimento su tanti altri aspetti del loro vivere qui in Italia.
Questa consapevolezza si traduce anche in partecipazione attiva, e nella costruzione di rapporti diversi tra i migranti e noi italiani?
La partecipazione attiva è difficile e la ottieni solo col rapporto personale. Se spedisco una lettera d’invito non viene nessuno; se faccio un giro di telefonate, arrivano. È un limite: si muovono ancora molto sulla base del legame personale con chi li stimola e li invita a partecipare, si tratti di me o del funzionario. Non hanno ancora ben chiaro cos’è il sindacato (a volte ci chiedono: “ma è il governo che vi paga?”), perché provengono da paesi dove l’idea di sindacato non c’è. Si fa fatica dunque a pensare all’auto-organizzazione.
Vi è stata qualche isolata esperienza, come quella degli Immigrati Autorganizzati, contro la truffa della sanatoria del 2009, ma è un’eccezione. Questo peraltro non è un periodo di sviluppo, c’è molta disoccupazione e poca forza per lottare.
Ti risulta che vi sia una migrazione di ritorno in questa fase?
Sì. Il primo passo è stato quello di far tornare le famiglie. Un fenomeno molto brutto, perché molti di loro stavano mettendo radici, avevano bambini già inseriti nelle scuole, che invece sono dovuti tornare nei paesi d’origine. Sono famiglie monoreddito e in questi casi il maschio capofamiglia decide di rimanere da solo, pensando che in qualche modo potrà arrangiarsi, trovare un posto letto e guadagnare qualcosa, mentre se c’è anche la famiglia non può scendere al di sotto di un certo reddito. Ora però è iniziato anche il fenomeno di persone che lasciano del tutto: dopo due anni di disoccupazione se non trovano lavoro, a seconda delle situazioni, o tornano a casa o cercano di andare verso il Nord, verso la Germania e la Francia. Dal mio punto di osservazione questo è un fenomeno ormai di una certa dimensione, anche se non ho numeri precisi da portare. Anche perché svolgono lavori dove non è necessaria una grossa specializzazione e c’è la gara al ribasso: ho in mente chi lavora 8-10 ore in un bar a 25€, o aziende dove pagano 10€ al giorno... Siamo nel Medio Evo, checché ne dicano! Se esci dal giro delle grandi aziende, dove bene o male mantieni dei diritti, in questo sottobosco di piccole, piccolissime aziende, artigiani, c’è veramente il Medio Evo.
La domanda è retorica ma necessaria: il sindacato, la Cgil, riesce a fare qualcosa, a entrare in questo sottobosco?
Io continuo a sostenere che non ci sono gli strumenti per entrarci. Dovremmo trovare i luoghi dove loro si riuniscono, cioè dovremmo andare noi verso di loro, perché nel luogo di lavoro non è possibile. Sono a conoscenza di diversi casi che meriterebbero una denuncia, ma sono proprio gli interessati a chiedermi di non intervenire: me ne parlano perché si fidano di me, però si raccomandano di tacere, perché “se perdiamo questo lavoro non abbiamo più nulla”. Gli strumenti legislativi non sono adeguati: non c’è una ricompensa per chi denuncia lo sfruttamento, ma semmai il rischio di essere espulso se non si ha il permesso di soggiorno, mentre il datore di lavoro troverà tranquillamente qualcun altro da sottopagare. Non è una legislazione punitiva verso chi utilizza forza lavoro in nero, anzi. Questo vale anche nel caso della sanatoria: è il datore di lavoro che decide per te, perché è lui quello cui spetta dichiarare che tu lavori lì. E se non lo fa? Siamo a condizioni di semi-schiavitù!
Inoltre sono ragazzi “sfruttati” anche dai loro familiari, perché hanno famiglie numerose che contano sulle loro rimesse per sopravvivere in patria. Si sentono in colpa se non riescono a mandare loro qualcosa. Di conseguenza, anche i 25€ al giorno sono indispensabili. Anche questo è un freno alla loro libertà di ribellarsi.
Il sindacato potrebbe essere un luogo d’incontro di tutti, perché oggi ci sono anche tanti italiani che stanno male. È faticoso, ma non impossibile: bisogna ragionare insieme, far sì che anche gli immigrati escano dal chiuso delle loro comunità. L’obbligatorietà dell’esame d’italiano, che io avevo osteggiato, paradossalmente è stata per certi versi un bene: ha fatto sì che le donne uscissero da casa, per iniziare a frequentare i nostri corsi d’Italiano. Senza quella forzatura non sarebbero mai venute a scuola.
Occupandoti delle problematiche degli immigrati è cambiato qualcosa in te? È mutata in qualche modo la tua prospettiva?
Forse non è la risposta che ti aspetti, però in me è aumentata la rabbia. La rabbia per la difficoltà che incontrano i poveri (non solo gli immigrati) ad avere giustizia e a rivendicare i loro diritti. Più passa il tempo e più invecchio, meno riesco ad abituarmi. La rabbia di fronte alle ingiustizie, scritte e non scritte, è qualcosa per me viscerale. L’ingiustizia è tipica dei poveri, ma quando te la trovi davanti, ti stringe il cuore. Non è buonismo il mio, non credo che siano tutti buoni: ci sono anche i disgraziati che sfruttano i loro connazionali; ma quelli che hanno fatto i soldi hanno gli strumenti per vivere bene anche qua. Chi invece non ha mezzi... che triste!
(Per chi volesse saperne di più: http://migrantimb.wordpress.com/tag/diritti-insieme/)
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