Tempo di Natale, tempo di regali. Chissà mai perché, nel gruppo delle tradizionali strenne natalizie (la sciarpa, il profumo, i sali da bagno) è sempre compreso anche il libro.
Già, ma quale? Prima di tutto, per quanto mi riguarda, dev’essere un libro che si è letto, non uno scelto nello scaffale delle ultime novità. Ho un amico che prende il precetto talmente alla lettera da donare un libro letto proprio da lui, con notazioni e sottolineature incluse. Sostiene che è come donare una parte di sé. Io non arrivo a tanto, sono egoista e possessiva: i libri me li tengo, perché mi piace sfilarli dagli scaffali, sfogliarli (spolverarli, se proprio devo...), riscoprirli, trovando nuovi significati. Così ho scelto tre libri (nuovi, per carità!) che regalerò quest’anno. Uno è stato pubblicato in Italia da pochi mesi (Pennac), gli altri due invece sono dei “classici” (Calvino e Bobbio).
“Storia di un corpo”, di Daniel Pennac, è un romanzo atipico, che risente molto di quell’età di mezzo ormai raggiunta dal suo autore. Lasciata la tribù dei Malaussène nella loro Belleville parigina, Pennac si addentra in un tema intimo e in parte inesplorato qual è quello del corpo dell’uomo. Deiezioni, fluidi, sudori, muscoli e decadenza fisica: dalla tenera età alla senescenza. La presa di coscienza di sé e della propria esistenza, in una dialettica continua con quella che usiamo chiamare mente. A Michel Foucault il romanzo sarebbe piaciuto: per quanto dice di ciò che è normalmente indicibile e forse anche per quanto non dice, per i salti temporali e le assenze del protagonista. È dai silenzi che possiamo intuire quando l’io narrante si sta abbandonando alla vita, anziché analizzarla.
Il mio volume è pieno di post-it, con i quali ho evidenziato i passaggi che mi colpivano durante la lettura. Riporto un episodio, nel quale il protagonista ricorda quando, sotto la guida del padre, imparò a scrivere. Il padre aveva combattuto nel corso della prima guerra mondiale. Sopravvissuto ai gas, era però rimasto minato nel corpo e nello spirito. Oltre a un fisico profondamente debilitato, dai campi di battaglia aveva riportato una serie di acquerelli dipinti da lui, dove si era sforzato di non rappresentare nulla che fosse stato toccato dalla guerra: villaggi prima dei bombardamenti, case isolate, angoli di giardini, aiuole, un fiore, un petalo, una foglia... Solo immagini di pace, sempre più piccole man mano che la guerra divorava uomini e cose. Quando il figlio fu in grado di tenere una matita in mano iniziò a segnare i contorni di quegli acquerelli e il padre lo lasciò fare, anzi, ponendo la mano sulla sua, lo aiutava a dare a quegli abbozzi un contorno sempre più preciso. “Dal disegno passammo alla scrittura. Sempre con la mano che guidava la mia, un portapenne invece della matita, mi faceva tracciare le lettere dopo avermi fatto disegnare i contorni delle margherite. Così ho imparato a scrivere: passando dai petali alle aste ai gambi. Tracciali con cura, sono i petali delle parole!”.
Il regalo perfetto per la mia amica Chiara, insegnante di scuola elementare e scrittrice per diletto.
Un po’ ingiallita, macchiata, sottolineata e asteriscata è la mia copia di “Le città invisibili”, di Italo Calvino. Il viaggio impossibile di Marco Polo nello sconfinato impero di Kublai Kan. Il tartaro chiede al veneziano di descrivergli le città visitate, perché “è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina. Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti”.
Dono virtualmente questo libro a tutti coloro che ricoprono cariche di governo, anche a chi si occupa di amministrare le città: voglio abbiano sempre presente che c’è bisogno di uno sguardo esterno, talora “straniero”, per comprendere e vedere oltre l’esistente. Continuo a leggere:
“Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
- Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? - chiede Kublai Kan.
- Il ponte non è sostenuto da questa o da quella pietra, - risponde Marco, - ma dalla linea dell’arco che esse formano.
Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: - Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa.
Polo risponde: - Senza pietre non c’è arco”.
A ben vedere, questo vale per tutti noi, cittadini e governati: ogni singolo contributo crea il ponte; è l’insieme coeso di ciascuna pietra a fare il ponte e a far sì che questo formi quell’arco capace di collegare sponde e luoghi lontani.
Per finire, al mio amico Giulio, che si ostina a ripetermi che le ideologie sono morte e che tanto “quelli lì sono tutti uguali”, regalerò “Destra e sinistra”, di Norberto Bobbio. Uscito nel lontano 1994, ne ho una copia molto vissuta e sottolineata, senza un granello di polvere, perché mi capita spesso di andarlo a riprendere dalla libreria: ogni volta che, come cantava Giorgio Gaber, mi sorge il dubbio su cosa sia di destra e cosa di sinistra (ricordate? “Il pensiero liberale è di destra /ora è buono anche per la sinistra / non si sa se la fortuna sia di destra /la sfiga è sempre di sinistra”). Due semplici coordinate senza le quali non si va da nessuna parte, come a dire che senza ideali non si può fare politica. Diceva Bobbio che ciò che distingue i partiti di sinistra da quelli di destra e da quelli conservatori sta proprio nel fatto che sono i partiti di sinistra quelli che vogliono trasformare la società. I conservatori vogliono mantenere l’esistente; i partiti di sinistra vogliono trasformarlo. Trasformare, tuttavia, è un’operazione che va compiuta sulla base di principi, di ideali che giustifichino la trasformazione: la trasformazione va giustificata (diceva Bobbio: “Io ritengo che il politico di sinistra deve essere in qualche modo ispirato da ideali, mentre il politico di destra basta che sia ispirato da interessi: ecco la differenza”). La differenza fra il conservatore e il riformatore sta qui: il conservatore non ha bisogno di giustificare la conservazione, mentre chi vuole riformare la società deve giustificare perché lo vuole. Per farlo è necessario ricorrere a dei grandi principi, primi fra tutti: eguaglianza e libertà. Aggiungo, sommessamente, che oggi occorre anche molta solidarietà, con un pizzico di spirito utopico.
Mi sa che ‘sto libro lo regalo anche a Matteo, di sinistra da sempre.
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