Tra pochi giorni i cittadini dovranno esprimersi su dei quesiti referendari su cui ovviamente non s’è fatta un’adeguata informazione. Le verità portate dagli avversi schieramenti sono per lo più parziali e non permettono di arrivare a delle considerazioni oggettive.
Cerchiamo di fare un po’ di luce.
Il primo quesito riguarda la modalità di affidamento e la gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica e chiede l’abrogazione dell’articolo 23-bis della legge 133/2008 e dell’articolo 15 del dl 135/2009.
I suddetti articoli prevedono la privatizzazione non dell’acqua, ma dei servizi idrici. E’ più di una sfumatura, perché il Decreto Ronchi prevede che solo la gestione non sia più (in parte) in mano pubblica. L’acqua rimarrà un bene demaniale e così tutti gli impianti ad essa connessi per la potabilizzazione e la distribuzione.
In Italia esistono da quasi vent’anni i cosiddetti ATO (Ambiti Territoriali Ottimali), associazioni di comuni (solitamente su base provinciale), che hanno il compito di assicurare i servizi idrici. Secondo il Decreto Ronchi, le Agenzie d’Ambito dovranno indire entro il 31 dicembre 2011 delle gare per la cessione delle quote. Alle gare potranno partecipare sia aziende pubbliche sia aziende private. Gli ATO avranno anche la facoltà di costituire dei PPP (Partenariati Pubblici Privati), delle aziende pubbliche con l’obbligo di cedere almeno il 40% della società a privati.
Gli ATO che non hanno ancora indetto gare o che hanno già optato per un affidamento 100% in house saranno obbligati a trasformarsi in società miste con almeno il 40% del capitale di origine privata. Ovviamente sono previste delle deroghe e, nel caso in cui nel territorio in questione non vi siano privati interessati, la gestione può rimanere 100% in house salvo parere dell’antitrust, ma l’obiettivo è quello di portare il capitale pubblico al 40% entro il 30 giugno 2013 e al 30% entro il 31 dicembre 2015. Insomma si sta andando verso una progressiva privatizzazione dei servizi idrici.
Se fosse raggiunto il quorum e vincesse il sì, i suddetti obblighi dati agli ATO e le relative scadenze cadrebbero e si tornerebbe ad un principio di gara ed evidenza pubblica come stabilito dalle norme europee. Saranno quindi gli ATO a decidere quando, quanto e se affidare ai privati.
Il secondo quesito referendario propone l’abrogazione del comma 1 dell’art. 154 del dl 152/2006 riguardo l’adeguatezza della remunerazione del capitale investito nel campo delle norme in materia ambientale.
In breve l’acqua diverrà un vero e proprio bene di mercato (o quasi) che dovrà remunerare gli investitori fino ad un massimo del 7% della quota investita, che è calcolata sia sui costi diretti che indiretti (prestiti). Da evidenziare il mancato obbligo di reinvestimento degli utili per un eventuale miglioramento della qualità del servizio.
Perché l’acqua diverrà quasi un bene di mercato? Perché le tariffe saranno comunque decise dagli ATO e non dal gestore e la legge fissa un limite massimo (ma non un minimo) oltre il quale non si può andare. Se dovesse vincere il sì, a quorum raggiunto, i privati non avrebbero alcuna convenienza ad investire in questo settore, perché non vi sarebbe alcuna garanzia di remunerazione.
Le Agenzie d’Ambito dovrebbero riacquistare, quindi, le quote e gli investimenti deriverebbero unicamente da fonti pubbliche e sarebbero a fondo perduto, proprio perché il sistema è impossibilitato ad auto sostenersi per definizione.
Tanto per cambiare questo centrodestra, insomma, continua ad inseguire il mito del dio mercato che dovrebbe risolvere tutti i problemi che il pubblico cattivo ha generato. Tipico dogma del berlusconismo.
Certamente in molti campi la liberalizzazione ha portato grandi benefici per le utenze finali (telefonia, energia elettrica, etc…), ma non tutto, soggetto alle medesime regole, dà i medesimi risultati.
Il sistema idrico italiano e tra i peggiori d’Europa con perdite che vanno dal 30 al 40% sulla media nazionale e punte locali che superano il 60%, ma ricordiamoci che le qualità biologiche, fisiche, chimiche e organolettiche delle nostre acque sono tra le migliori d’Europa.
Certamente degli interventi sono necessari, ma il privato non può essere la soluzione per svariati motivi.
In primis perché i costi di gestione e ristrutturazione degli attuali impianti sono ingenti e difficilmente dei privati potrebbero investire centinaia di milioni di euro per sistemare lo sgangherato sistema acquedottistico italiano con la misera remunerazione del 7% e delle tariffe massime fissate per legge.
Il risultato che si produrrebbe, quindi, non sarebbe un aumento esagerato del costo dell’acqua (o meglio del servizio idrico, perché è quello che paghiamo), ma un progressivo peggioramento della qualità del servizio a favore degli speculatori di turno che, non potendo migliorare la situazione per via della tariffazione massima permessa, si limiteranno a riscuotere il loro 7%.
Di per sé, se lasciassimo veramente nelle mani del mercato la gestione dell’acqua (nessun limite di tariffazione), i costi diverrebbero esorbitanti per via dei necessari investimenti per il miglioramento e il mantenimento del servizio.
Esempi europei in cui i prezzi sono stati meno calmierati li abbiamo in Germania o in Svizzera dove l’acqua costa rispettivamente 4,3 e 3 €/m3 contro i 0,15 italiani.
Altro problema sarebbe la situazione di sensibile disparità sul territorio nazionale a seconda delle attuali condizioni delle condotte. Il privato che entrerà nella gestione di impianti vetusti dovrà imporre tariffe più alte e dovrà arrendersi ad un continuo e inesorabile peggioramento del servizio.
Quello che invece si ritroverà condotte in buona salute garantirà buoni prezzi e qualità del servizio ai cittadini. Non parlo solo della proverbiale differenza nord-sud, ma anche di quelle che si produrrebbero tra una provincia e l’altra all’interno della medesima regione.
Il settore idrico, insomma, ha ora bisogno per lo più di iniezioni di liquidità da parte dello Stato, a fondo perduto appunto, per poter migliorare le proprie prestazioni.
Questo non significa vietare ai privati di intervenire dove questo sia possibile e possa permettere vantaggi sia per il gestore sia per i cittadini, ma significa lasciare libertà ai comuni di poter scegliere quale sia per loro la migliore delle opzioni in campo, senza che da Roma pretendano di applicare una regola per tutti, un vero federalismo dell’acqua insomma.
Report