Europa CECANell’aprile 1951 Parigi era in fermento. Nei bar, nelle bische, ai tavoli degli ippodromi, correvano nomi importanti. Di italiani, persino di tedeschi. E poi di celebrità locali. Schuman e Monnet per la precisione, già di casa in città. Pezzi da novanta. Ma certamente anche gli stranieri, De Gasperi e Adenauer, non erano da meno. Si prospettava insomma una vera e propria calata di talenti.

Oggi, di fronte a tale fervore, ci si chiederebbe: “Ma questi qua in che squadra giocano?”.

Ma al tempo i francesi, gli italiani, i tedeschi, tutti gli abitanti del globo a dire il vero, avevano ben altri problemi. E l’attenzione non era puntata sullo stadio parigino del Parco di Principi, bensì su un’altra partita, assai più importante: la firma del trattato istitutivo della CECA, la Comunità Europea Carbone e Acciaio.

Senza acronimi, un accordo di libero scambio.

Qualcosa che oggi sembrerebbe scontato quanto prestarsi zucchero tra vicini. Qualcosa che al tempo corrispondeva a una vera e propria rivoluzione.

Si trattava, appunto, di una idea rivoluzionaria e allo stesso tempo semplice: instituire un mercato comune, e quindi controllabile, del carbone e dell'acciaio, proprio delle due materie prime essenziali per la produzione di quegli armamenti che avevano messo a ferro e fuoco il Vecchio Continente.

Nei secoli, l’Europa era stata madre di invenzioni, opere, meraviglie. Ma soprattutto di guerre. In media una ogni 46 anni. Conflitti che con il tempo diventavano sempre più imponenti, moderni, devastanti.

Fino al culmine. Fino ai 71 milioni di individui che la seconda guerra mondiale cancellò dalla storia.

Solo di fronte al genocidio dei suoi figli, il Vecchio Mondo decise di inventarsi qualcosa. In realtà già in molti, prima del fatidico 1945, avevano ipotizzato un’unione di Stati che garantisse la pace. Sognatori, come Altiero Spinelli o Ernesto Rossi, i due autori del Manifesto di Ventotene. O forse solo uomini che avrebbero potuto evitare un massacro. La differenza è labile se non addirittura nulla. Caratteristica principale di costoro era un’altra, sicuramente: tutti quanti erano inascoltate voci nel deserto. I potenti avevano di meglio da fare, pensavano a costruire un proprio personale impero o Reich, o semplicemente a starsene nel loro brodo.

Così, senza più case e certezze, il mondo si rese conto che la strada non poteva più essere quella percorsa in passato. Altre guerre, altro astio, avrebbero portato solo alla distruzione. Del genere umano, s’intende. L’unica soluzione era quella fantomatica pace tanto inseguita e mai raggiunta. E, come ben sosteneva Schuman “la pace mondiale non può essere salvaguardata se non con sforzi creativi”. Bisognava creare qualcosa di nuovo: l’Europa.

Oggi sembra improbabile che a pronunciare queste parole sia stato un politico.

Eppure quegli uomini citati all’inizio non erano giocatori di pallone. Erano capi di governo, ministri, rappresentanti di nazioni intere che, dopo aver visto coi loro occhi la morte, ne avevano abbastanza.

Si dica quello che si vuole dell’Unione Europea: che è sbagliata, che è predatrice, che è bellissima o che fa schifo. Ma non si dica che è nata per rapinare i popoli.

Non si dica che è nata per le banche.

Perché l’Europa non è nata per soddisfare interessi economici. L’Europa è nata mettendo sì in comune carbone e acciaio; ma anche mettendo in comune un sogno. Il sogno che l’uomo, parafrasando Guccini, possa un giorno imparare a vivere senza ammazzare. Il sogno che il vento, il sibilo delle urla dei morti, possa un giorno posarsi per sempre.

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