Galeano"Per quanto i tecnocrati lo programmino perfino nei minimi dettagli, per quanto i potenti lo manipolino, il calcio continua a voler essere l'arte dell'imprevisto .. Per fortuna appare ancora sui campi da gioco, sia pure di rado, qualche sfacciato con la faccia sporca che esce dallo spartito e commette lo sproposito di mettere a sedere tutta la squadra avversaria, l’arbitro e il pubblico delle tribune, per il puro piacere del corpo che si lancia verso l’avventura proibita della libertà”.

Così scrive il grande Eduardo Galeano nel suo bellissimo libro “Splendori e miserie del gioco del calcio” che Repubblica, insieme ad altri classici sullo sport, sta riproponendo in queste settimane in edicola.

Può apparire strano che, sul sito di un partito politico, il tema del calcio – che si imporrà, volenti o nolenti, nell’informazione nazionale del prossimo mese – sia affrontato per qualcosa di diverso dai disordini sociali che si stanno verificando in un Brasile dove le sperequazioni sociali sono aumentate al passo con la crescita.

Ma mi sia consentito un momento di leggerezza: la leggerezza di cui parlava Calvino, che non è superficialità, ma, ogni tanto, “il planare sulle cose dall’alto e non avere macigni sul cuore”.

La letteratura ha spesso cantato il fascino mai completamente ponderabile del gioco del calcio, delle partite e degli atleti, dell’agonismo e della sportività, dei trionfi e delle sconfitte: da Vasco Pratolini a Gianni Brera, da Manuel Vázquez Montalbán a Osvaldo Soriano, da Mario Soldati a Stefano Benni, a, appunto, Eduardo Galeano, per arrivare a Umberto Saba e Pier Paolo Pasolini.

Anzi, a dirla tutta, il primo genio della letteratura ad occuparsene  fu -, con la poesia “A un vincitore nel pallone”, datata 1821 - un certo Giacomo Leopardi che certo non aveva la fama di allegrone.

Certo la visione romantica, a volte perfino epica, che si incontra nelle pagine dei grandi autori citati non può nascondere gli scandali, la violenza e la malavita che sempre più spesso invadono il pianeta calcio.

Eppure questo sport, anche dopo ogni scandalo, è sempre riuscito a risollevarsi, come l’araba fenice, dalle sue stesse ceneri: cosa renda questo sport così amato e popolare, così coinvolgente e universale, a ogni latitudine e longitudine di questo nostro mondo - al limite, troppo spesso, della follia - è sempre stato oggetto di discussione e di mille tesi.

La mia è che è lo sport più democratico del mondo. Nato nobile – le prime regole codificate furono quelle decise dagli eletti studenti di Cambridge niente poco di meno che nel 1846 – è via via diventato lo sport di tutti perché, se ci pensate, è l’unico sport che unisce in sé due caratteristiche fondamentali.

Non è necessario avere un fisico particolare – puoi essere alto, basso, tarchiatello o longilineo, puoi perfino non essere nato sano, e diventare comunque un campione – e, non meno importante, non ha bisogno di un’attrezzatura che sia qualcosa di più di una qualunque superficie più o meno piana e un oggettoche rotola.

Davanti al calcio siamo tutti uguali, come - almeno cos’ dovrebbe essere - davanti alla legge: forse è proprio questa possibilità di identificazione – che certo non ci può ugualmente riuscire con i giganti del basket o quelli del rugby, o con i fisici da eroi ellenici dell'atletica – che “non possiamo non dirci tifosi”, per fare il verso a Benedetto Croce.

Affascinanate è la tesi di Galeano che vede nel calcio una rituale sublimazione della guerra, senza armi nè corazza, in un fortinio che è lo stadio, dove a frontaggiarsi sono odi e rancori tramandati da padre in figlio.

Con alcuni amici della redazione del Sito PD abbiamo deciso di goderci in compagnia i Mondiali al Circolo Cattaneo di Monza e chi vuole aggiungersi è il benvenuto: noi i mondiali li guarderemo, vivaddio.

Non saremo tra coloro che pronunceranno la fatidica frase “io vado nell’eremo finché non finiscono i mondiali a leggere l'opera omnia di Schopenhauer, ovviamante in tedesco”; la frase di quelli che, quando vanno in televisione, trovano sempre il modo supponente per dirci: “io che non posseggo una televisione”.

Certo che non la possiedi, verrebbe da rispondergli quasi sempre: non ne hai bisogno. Di fatto, in televisione, tu ci vivi, soprattutto per dirci che non ne possiedi una.

Quindi buon divertimento con l'amico Shopenhaur, noi ci accontenteremo, per qualche settimana, di Lionel Messi.

 

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